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la forma delle parole · 2 le parole che scrivo

Caratteri: anatomia

Le componenti minute


2.7 caratteri: anatomia
Visibili invisibili: le parti del «tutto».
Osservati i grafismi nel loro assetto individuale e di gruppo, diviene conseguente complemento trasferire l’analisi alla minor scala delle componenti anatomiche minute. Per ragioni che si sono varie volte menzionate, prima fra tutte l’efficienza mediale, si tratta di una questione in genere confinata all’attenzione esplicita dello stretto ambito tecnico, nonostante essa partecipi con grande rilevanza alle dinamiche percettive e alla qualificazione connotativa. Ma, appunto, queste ultime funzioni possono realizzarsi solo se il dettaglio resta di sfondo; qualora viceversa esso ne travalichi il sottile confine, si generano irrimediabili discontinuità sul piano della comunicazione alfabetica pura, e l’artefatto assume polarità riorientate in senso più espressivo che mediale, di grafica più che di alfabeto.1 Questa è condizione con cui devono fare i conti, in proporzionale misura, quanti a vario titolo si occupano di tipizzazione. Per chiarire la concretezza di questa discronia, un notissimo disegnatore di caratteri suole esemplificare come, nella visione dei film, spesso gli capiti di ritrovarsi distratto a causa del comparire, in scenografia, di complementi alfabetici grossolanamente qualificati, fuori tempo o fuori luogo,2 e comunque dalla scomposizione dei quali per prassi mentale talora non riesce ad esimersi.

Nei dettagli di cui si compone la struttura dei tipi, hanno riscontro ragioni tecniche così come storiche e stilistiche. Esse, congiuntamente, concretizzano precise configurazioni. Rivolta ai meno addetti, se ne farà qui una disamina per sommi capi: appena introduttiva, ma sufficiente ad essere d’ausilio per una prima ricognizione stilistica, e di generale indirizzo per riconoscere/confrontare il disegno dei diversi caratteri.
«E» Garaldus



2.7.1 anatomia generale
Componenti elementari.
Si tratta di elementi ricorrenti, chiaramente caratterizzati e geometricamente elementari che solo con certo grado di cosapevolezza e allenamento si riescono ad enucleare dallo sfondo e dall’unità semantica, in un processo del tutto opposto a quello globale della lettura.

Sintetizzando molto, si può dire che i grafismi alfabetici si compongono essenzialmente di aste: in diversa articolazione strutturale (retta, curva, spezzata o composizioni delle precedenti), e con andamento di tratti variamente caratterizzato (uniforme, contrastato, modellato, digradante, articolato, irregolare, incoerente).

struttura aste
andamento aste

In relazione all’orientamento, alla posizione e al ruolo, le aste acquisiscono nomenclature generali e specifiche: si distinguono spine curve o rette, rispettivamente per le oblique di «S» e «Z», così come si differenzia fra curve chiuse o aperte indicando, ad esempio, la «O» o la «C». Le aste esterne inclinate in «A», «W», «M» si chiamano montanti, sono invece trasversali o traverse i tratti interni di connessione, come in «W», «M», «H». Si possono dire semplicemente verticali le aste a tutta altezza di «L», «H», «N», mediane le verticali contenute nell’occhio medio, come in «n», «m», «r», ed ancora ascendenti o discendenti quelle che lo eccedono in una o nell’altra direzione. Le piccole aste orizzontali di «t» e «f» sono chiamate barre, le centrali di «E» e «F» cravatte, quella della «G» prende invece il nome di ardiglione. Le emiaste superiori e inferiori, rette o curve, ortogonali od oblique, genericamente si dicono bracci: es. gli estremi in «E», «F», «T», «S», «C», «Y». In alcuni casi, per riminiscenza della struttura calligrafica, i bracci acquisiscono la nomenclatura coda: es. l’obliqua inferiore di «K» e «R», così come code sono le oblique discendenti in «Q», «y», «7». Si distinguono poi gli occhielli, es. le sezioni chiuse di «a» ed «e», che nel caso inferiore della «g» si specifica in cappio; ed ancora colli, congiunzioni, vertici: rispettivamente le soluzioni di continuità fra occhiello superiore e cappio nella «g», fra aste curve e rettilinee, fra montanti e verticali. Infine, i sostegni verticali inferiori come in «Y», «G» e «4» prendono il nome di pilastrini.

aste: nomenclatura generale



2.7.2 anatomia di dettaglio
Apertura e chiusura dei tratti: le «grazie».
Scendendo ancora più in dettaglio, uno degli elementi di principale caratterizzazione, dunque di riconoscibilità del grafismo, è la terminazione d’asta. Qui, infatti, si osservano distinzioni fondamentali: in merito alla qualificazione storico-stilistica, alla correlazione tecnologica e, più in generale, al complesso delle ragioni genetiche e strutturali del segno. Le aste possono presentare terminazioni prive d’articolazione, viceversa averla variamente sviluppata; quest’ultima nel nostro contesto linguistico prende il nome di grazia, altrove serif o empattement.

Per natura e derivazione, si possono individuare delle puntuali distinzioni tra grazie su lettere maiuscole e minuscole, così come tra terminazioni superiori ed inferiori, simmetriche o asimmetriche, su bracci retti o curvi. Pragmaticamente risulta utile osservare, quale primo riferimento, la base di un’asta verticale che, nel caso tipografico ordinario, può essere ricondotta a poche tipologie fondamentali. Qui, in relazione alla struttura, si distinguerà fra: articolazione assente (senza grazie), semplicemente modulata o espansa, generalmente triangolare, squadrata, ornata.

aste: terminazioni

In ragione che la grazia si componga per linee curve, rette, o loro varia combinazione, si potrà ulteriormente precisare l’ambito e il riferimento stilistico. Caratteristiche delle tipizzazioni rinascimentali, i cosiddetti Romani antichi o Veneziani, furono le grazie di foggia triangolare morbida; le stesse assunsero una base con linee più rigide e contrastate nei razionalistici Transizionali del ’700, cui seguirono, in una sorta di ideale sequenza prospettica, le terminazioni quadrangolari degli Egiziani del secolo successivo. In tempi più vicini a noi, il riferimento arcaico all’asta essenziale, il «Bastone», variamente troncata, marcata o modulata, completa l’abaco degli schemi geometrici fondamentali con cui si trovano interpretate le diverse terminazioni d’asta.

Si accennava delle distinzioni in relazione alla collocazione delle terminali nel contesto strutturale della lettera: con riferimento architettonico, nelle aste a terminazione simmetrica si dirà meglio capitello l’estensione di testa, plinto quella alla base. Per le configurazioni asimmetriche, osservabili largamente nel caso minuscolo, la definizione propria è attacco per le superiori, troncatura (o rottura) per le inferiori, con eloquente rimando alla gestualità scrittoria.

grazie: nomenclatura


Talora in attacchi e troncature, e più tipicamente su braccio o gancio, si distinguono terminazioni sviluppate secondo quattro generali tipologie: a goccia, a bottone, a bandiera, a becco semplice o ardiglionato.3 Forme assimilabili si possono ancora riscontrare nell’eventuale minuta propaggine superiore di «o» e «g», detta orecchio.

Nei casi, infine, dove il riferimento è espressamente calligrafico, le terminazioni d’asta acquisiscono valenza di maggior grado e più generosa estensione: con progressività di incidenza si possono specificare congiunzioni, supplementi, svolazzi o riccioli.

grazie: dettagli

Aumentando di risoluzione, lo spettro delle precisazioni onomastiche si amplia di conseguenza: si dirà aggetto la porzione che estende la sezione principale dell’asta, connessura il punto di questa giustapposizione; culmine è l’allineamento superiore del capitello, piede quello inferiore del plinto; e poi filetto, fusello, lobo, apice, saliente, montante, uncino, ecc., come si può osservare nella schematizzazione qui sotto.

dettagli fini


Le terminazioni d’asta compongono quindi una nutrita varietà. Benché condensata in casi peculiari, essa non sempre risulta espressione di radice genetica omogenea, né di immediate dipendenze tecniche, nonostante alcune diffuse teorie si soddisfino sbrigativamente del contrario. Utile dunque aggiungere qualche puntualizzazione. Innanzitutto, è assolutamente da disconoscersi una prioritaria ed univoca origine delle grazie da prassi esecutiva. Ciò in specie è vero nei modelli epigrafici classici che, viceversa, sono comunemente presi a principale esempio nella dimostrazione della tesi opposta: lo scalpellino incideva su abbozzo tracciato a pennello, del quale avrebbe pedissequamente riprodotto il segno, tipicamente espanso alle terminazioni. Spiegazione tanto semplicistica quanto contraddittoria, anche perché spesso riferita a complessi testimoniali di fattura finissima, in cui certo qualsivoglia troncatura d’asta non avrebbe rilevato difficoltà. Né può aver credito che il tracciatore «sbordasse» sistematicamente i segni a pennello per veloce approssimazione, né che l’artigiano, per quanto eventualmente analfabeta, potesse non aver la competenza della geometria effettiva della manciata di lettere che ciclicamente gli capitava di ripetere, così da confondersi di una traccia inesatta; tantomeno può ridursi banalmente la grazia a forma di convenienza o, peggio, di necessità, indotta dall’inclinazione dell’utensìle incisorio: considerato poi che non sempre e non tutte le terminazioni di direttrice — vedi ad esempio i vertici — si risolvono in articolazione estesa. Per altro verso, come già illustrato,-> non così di rado capita d’incontrare modulati «bastoni» di periodo classico. La forma delle terminali graziate, così come la sezione dell’incàvo epigrafico, sono quindi a pieno titolo soluzioni adottate espressamente, forme nobili, progettate: in primo luogo per ragioni percettive, per rafforzare la definizione del segno e marcarne l’allineamento, in secondo luogo per un complesso di esplicite intenzioni connotative, di chiarezza e saldezza, di cui si è già detto trattando delle capitali; ed ancora per una sorta di assimilazione psicologica: non si dimentichi che epigrafia e monumenti condividono la stessa materia, la pietra, di lì plinti e capitelli. È fisiologico e indubbio che, come la forma si allinea alla funzione, esecuzione e strumento interferiscano vicendevolmente, altra cosa però e risolvere la correlazione perpetuando fuorviante stereotipata banalità, specie nel caso epigrafico. Un’induzione più diretta dal metodo esecutivo ha invece maggior riscontro nelle forme di calligrafia, in particolare minuscole e corsive, in cui attacchi e rotture risultano inevitabilmente condizionate dallo strumento scrittorio, nondimeno dalla tipologia del flusso4 e dall’intenzione stilistica, cui è attribuibile altrettanto controllo. Anche qui, dunque, associazioni tutt’altro che «meccaniche».

Tra questi due estremi, epigrafico e calligrafico, si possono intendere declinate ed ibridate tutte le varie forme terminali, del maiuscolo così come del minuscolo. Ed infatti, se quest’ultimo per un verso progressivamente si coordina al primo, marcando in consonanza teste e basi d’asta, altrove mantiene esplicita la matrice calligrafica, in ganci, becchi, orecchi. In sintesi, sebbene vi si debbano oggettivamente osservare alcuni condizionamenti materiali, le soluzioni di terminazione sono da intendersi come forme volontariamente ricercate, con funzione percettiva, connotativa e stilistica. Questa del resto è costante della tipizzazione in ogni tempo.



2.7.3 anatomia di costruzione
Correzioni tecniche e percettive.
La comprensione della complessità tecnica del grafismo tipizzato non può infine prescindere dal sapere dell’esistenza di quest’ultima categoria di apporti anatomici: quelli tecnici e percettivi. Di natura strettamente implicita, essi non si legano individualmente alla definizione astratta di una particolare fisionomia, quanto viceversa alle ragioni fisiche della trasposizione della forma su un dato supporto e della sua fruibilità in un preciso contesto funzionale. In sintesi, vi si comprendono tutti quegli accorgimenti, percettivi e tecnologici, indispensabili affinché l’intenzione formale del tipizzatore si preservi nel tragitto che conduce alla percezione sensoriale di chi fruisce il segno, ovviando alle deformazioni che inevitabilmente si generano quando l’idea si immerge nel contesto fisico. Un’altra questione ancora della articolata dialettica che, nello strumento alfabetico, si innesca fra pensiero, mezzo e meccanismi di comunicazione.

Dette le ragioni ontologiche, per nulla marginali, sarà però più facile chiarire il dato pratico attraverso qualche esempio. Già l’architettura antica aveva rilevato come dimensione, proporzione e linearità necessitassero di precisi accorgimenti correttivi, così che il dato geometrico non risultasse deformato nella percezione, in relazione a prospettive, collocazioni, sfondi e distanze. Caso diffusamente noto è quello dei templi della Grecia classica, in cui, ad esempio, si profilavano variamente le colonne, modificandone la sezione circolare (rastremata, ovalizzata, espansa), l’intercolumnio e l’inclinazione, in funzione della loro collocazione centrale o angolare, frontale o laterale. Accorgimenti di parallelismo, convessità, cromatismo e ombreggiatura coinvolgevano questi ed altri elementi dell’edificio, epigrafie comprese: tutto affinché l’osservatore potesse ricavare un’immagine d’insieme equilibrata e adeguatamente significativa. In ogni epoca, l’architettura e più estesamente l’arte e la rappresentazione visuale mai hanno potuto eludere tali questioni, confrontandovisi di volta in volta nelle diverse contingenze.

Su piano specifico, e con specifica scala, necessità assimilabili si pongono appunto anche in merito alla geometria della tipizzazione alfabetica. Vi è, ad esempio, l’esigenza di compensare visivamente gli spessori di orizzontali e verticali, poiché, a parità metrica,5 i primi tendono a percepirsi maggiori dei secondi, di qui la buona regola di anticiparne un’opportuna riduzione: così in «H» la trasversale avrà spessore effettivo minore delle verticali. Similmente accade per i bracci di «F» «E», «Z», ecc., o per la componente orizzontale di curve aperte e chiuse in ganci e occhielli: così in «G», «C», «O»…, «g», «e», «a», ecc. Una certa compensazione ottica degli spessori va poi osservata nel rapporto tra aste corte e lunghe, essendo essi visivamente prevalenti nelle prime, e ribadendo quindi la necessità di ridurne progressivamente la misura in elementi quali, ad esempio, i ganci di «C», «G», «J». Sempre legata alla visione, è la convenienza generale di imporre un lieve grado di contrazione nelle proporzioni della parte superiore dei grafismi, in modo da compensare la tendenza indotta dalla dinamica naturale che, viceversa, le amplifica: così in «C», «G», «K», dove i bracci superiori dovranno essere in genere arretrati rispetto ai corrispondenti inferiori; ugualmente in «X» e «Z», che per simmetria sono da contrarsi superiormente da ambo i lati. In «E» la compensazione coinvolge anche la cravatta la quale, per effetto del suddetto riproporzionamento, è soggetta ad una aggiuntiva traslazione verso l’alto. Lo stesso è in genere da osservarsi nel disegno e nella collocazione di trasversali, barre, spine curve e spine rette. È appunto evidente come una «S» ben disegnata debba presentare la curva superiore ridotta rispetto all’inferiore, di conseguenza la spina che le unisce avere il baricentro localizzato al di sopra dell’asse orizzontale mediano della lettera. Il principio risulta altrettanto palese nel rapporto fra gli occhielli del numero «8», ma anche nella posizione rialzata della trasversale di «H», o della barra di «t» e «f». Nei grafismi verticalmente sbilanciati, come in «P» e più raramente in «F», l’equilibrio della sezione superiore è tendenzialmente raggiunto con una maggiore contrazione sull’asse orizzontale, unita viceversa ad un’espansione sulla verticale: qui si tratta, infatti, di compensare il «vuoto» inferiore del grafismo attraverso una traslazione verso il basso: rispettivamente agli esempi citati, della componente inferiore della curva e talora della cravatta, così da centrare il baricentro ottico complessivo. Altrove, con asimmetria verticale di altra natura, «R» o «B», si applica invece il principio generale per la parte superiore del grafismo, bilanciando secondo i casi attraverso il maggior dimensionamento del tracciato inferiore.

Nel disegno alfabetico, non solo le proporzioni ma anche le connessure e i punti di raccordo tra le aste si risolvono di rado in modo geometrico banale, vale a dire per semplice giustapposizione. In presenza di angoli molto chiusi, generati nell’incontro tra ortogonali e oblique, od oblique di senso opposto, si pone ad esempio la necessità di rastremare gli spessori di connessione, che viceversa produrrebbero percettivamente una sorta di «macchia», di «troppo pieno»: si osservino indicativamente lettere quali «A», «M», «N». Lo stesso vale per il raccordo tra aste curve di distinta direttrice (orizzontale/verticale). Qui, in particolare, la medesima esigenza di assottigliamento comporterebbe un complessivo scaricamento dei pieni, che è dunque da compensarsi diversamente, in genere rafforzando lo spessore medio dell’asta rispetto alle corrispondenti rette. Il confronto tra «O» e «H» può risultare qui esaustivo.

Un altro accorgimento di prassi riguarda le componenti rettilinee di curve aperte e chiuse: soggette percettivamente a flettersi all’interno sulla controforma, vanno corrette anticipando un’opportuna curvatura/traslazione in senso opposto: tipico è il caso della «O».

accorgimenti percettivi


Più in generale, uno dei fondamenti della tipizzazione alfabetica è il controllo della complessa interazione che si instaura fra i pieni ed i cosiddetti bianchi, vale a dire tra grafismo e contrografismo. Ed effettivamente gli equilibri tra gli elementi del tracciato individuale, così come quelli tra i diversi segni che si succedono nel flusso del testo, sono in larga parte strutturati proprio in ragione della controforma: il «bianco», infatti, detiene un marcata preminenza visiva rispetto alla tinta generalmente più scura del pieno. Tanto che il medesimo grafismo appare erroneamente di dimensioni maggiori invertendo il rapporto cromatico usuale forma/controforma, vale a dire se definito chiaro su scuro. Andando alla prospettiva d’insieme, anche l’accostamento, cioè lo spazio tra i segni in composizione, è individualmente progettato in considerazione delle diverse configurazioni di bianco che si generano nella giustapposizione delle distinte fisionomie. Vi saranno casi con accostamenti in varia misura divergenti, di curve o direttrici opposte, es. «D+O», «V+V»; altri si presenteranno sostanzialmente neutri, accostandosi profili di uguale natura, es. «H+L», «I+P»; vi saranno infine casi che inducono alla sintesi, in ragione dell’andamento complementare degli elementi accostati, es. «A+V». Declinata rispetto queste matrici fondamentali, si osserva così una varietà di rapporti estesa a tutte le possibili combinazioni di segni, di ortografie, di stili, di dimensioni, ecc. Regola spesso citata è che il contrografismo di accostamento misuri area corrispondente in tutte le combinazioni di segni. Si tratta di un dettame approssimato, puramente esemplificativo, non applicabile dunque semplicisticamente al caso reale, ma da misurare con l’insieme delle convenienze percettive, e quindi da tradurre nei casi individuali.



La valutazione dell’equilibrio d’insieme coinvolge poi altre questioni, in particolare di allineamento e dimensione. In relazione al corpo e alle condizioni di fruizione, si dovrà infatti tenere presente il grado di percepibilità dei dettagli nello strato liminare, fra forma e controforma; per cui l’allineamento dovrà innanzitutto condursi rispetto alle linee percepite, le quali talora potranno differire dall’assoluto geometrico. Infatti, laddove la proporzione tra pieno e bianco è fortemente sbilanciata in favore del secondo, la naturale preminenza ottica della controforma giunge a sovrastare il minuto dettaglio, assimilandolo, e producendo in tal modo una contrazione della dimensione percepita, che si dovrà quindi compensare. Esempi principe sono gli allineamenti su vertici e punti di tangenza, come in «A», «V»..., O», «C»... In entrambe le tipologie, l’equilibrio ottico imporrà così di prevedere una certa misura d’abbondanza rispetto al «confine» geometrico puro, che dunque si dovrà far sbordare oltre tale allineamento «oggettivo», valido invece per le forme rette tipo «I», «T», «L», «Z» ecc. Sempre per l’interazione con il contrografismo, si dovrà tener presente che, a parità metrica, la percezione dimensionale è condizionata dalla gamma di larghezza e tono: così un condensato sembra più alto del corrispondente normale, il quale a sua volta appare di maggior altezza rispetto al grassetto. Ed ancora, maggiore la frequenza delle verticali (condensato), maggiore lo sviluppo verticale ed orizzontale percepito complessivamente.

Tutte quelle citate, così come altre che si sono tralasciate per sintesi, più che regole in senso stretto sono da intendersi come riferimenti di fondo, linee guida, non cardini assoluti: infatti, dovendosi contemperare una quantità di influenze e polarità incidenti, esse si troveranno di volta in volta da bilanciare e mediare, da omettere o assumere con priorità. La vera ineludibile sostanza è che si tratta di accorgimenti destinati alla vista, e nessuno strumento è più adatto ad esprimerli e calibrarli di un occhio competente e finemente allenato: per quanto provati ed efficienti non ci sono capisaldi univoci, né algoritmi universalmente validi. Nemmeno Aldo Novarese, cui sensibilità ed esperienza progettuale certo non facevano difetto, e che questi ed altri dettami aveva provveduto a formalizzare sistematicamente,6 mai poteva esimersi da una meticolosa e ripetuta valutazione visiva, che nel suo Studio Artistico era istituita quale categorica prassi. Oggi i software hanno messo in campo funzioni potentissime, in grado di recare supporto di grande efficienza. La molteplicità dei casi è tuttavia infinitamente estesa ed è ancora indimostrato il poter sostituire del tutto l’intervento puntuale con meccanismi di sorta. Capilettera e logotipi «automatici» ne costituiscono, purtroppo, diffusa ed evidente riprova.


Vi sono poi questioni che non si legano unicamente alle dinamiche della visione e che dunque non sono risolvibili attraverso correzione ottica pura. Alcune volte, infatti, il tipizzatore si trova ad affrontare esigenze di derivazione espressamente tecnologica, che quindi richiedono un approccio che coinvolge a vario titolo il piano materiale. È ad esempio il caso, già accennato, dell’adeguamento dei caratteri digitali in funzione della costituzione del supporto d’applicazione: per cui vi sono delle specifiche tecnologie che individualizzano le informazioni per la fruizione a display, o viceversa in stampa. Specie in passato, a causa della limitata risoluzione dei monitor, si poneva l’esigenza di avere tipi che potessero scalare di tessitura senza con ciò produrre aberrazioni di forma. La soluzione fine, implementata in molte font di qualità e legata in particolare ai corpi minori, si ottiene attraverso opportune istruzioni che inducono (hint) sul dispositivo la migliore mediazione di forma in rapporto alla densità di riproduzione. Se a ciò si aggiunge un disegno di base debitamente concepito, il quadro si completa. In tempi recentissimi, la gestione dei caratteri a schermo è stata rivoluzionata dal radicale incremento delle risoluzioni anche nei dispositivi d’uso comune; per altro verso, nella continua dinamica di sviluppo, hanno preso corpo nuovi elementi di complessità, in quanto l’output risulta sempre più influenzato da ottimizzazioni proprietarie, distinte e in evoluzione, di cui non risulta semplice anticipare il controllo.

Nemmeno il cartaceo è ed è stato esente da problemi assimilabili. Caso macroscopico la stampa, sempre di corpi piccoli, su carta relativamente grezza, come ad esempio quella di certi ponderosi cataloghi commerciali, di repertori archivistici o degli elenchi telefonici vecchia maniera. Produzioni, peraltro, ancora di inaspettata resilienza. L’intervento diviene qui di matrice propriamente materiale, a costituire margini di tolleranza per compensare le fisiologiche abbondanze prodotte, nella carta, dall’assorbimento dell’inchiostro. In pratica, per evitare lo sbordare del pieno nei contrografismi delle connessioni d’asta minute, il tipizzatore predispone degli alleggerimenti (eventualmente aggiuntivi a quelli percettivi), così che l’inchiostro vi si possa espandere senza eccedere il profilo di progetto. Ne sono esempi i caratteri Bell Centennial di Matthew Carter e Nomina di Piero De Macchi, sviluppati proprio per gli elenchi telefonici, così come i modelli precursori ad opera di Francesco Simoncini, concepiti in aderenza a simili requisiti ed illustrati in conferenze e saggi.7 Qui sotto, riga superiore, «a» a confronto: da destra, il Delia di Simoncini, il Nomina di De Macchi e l’Eurostile di Novarese. Pure secondo medesima direttrice, tre approcci diversi al problema. Adattissima a corpi minuti, pensata assai meno per supporti e processi di stampa «rustici», si noti come la terza soluzione risolva il tema con inarrivata leggerezza. Ma lì si traeva dall’eredità del Microgramma8 — che pochi pari ha nei corpi piccoli — e dunque da un altro straordinario sensibilissimo maestro,9 Alessandro Butti.



Nella parte inferiore dell’illustrazione che precede, si tratteggia invece problema e soluzione adottata da Simoncini in merito alla resa in stampa dei particolari minuti, quali appunto gli estremi delle grazie nei corpi medio-piccoli. A sinistra la fisionomia di progetto, a destra la pre deformazione del profilo stampante, al centro il confronto fra l’impressione senza e con l’intervento correttivo.

Principi, quelli sopra illustrati, in certo senso correlati e inversi a quanto informerà poi la progettazione delle già citate serie Valdonega, con cui viceversa l’intento dei tipizzatori è stato di riprodurre nella «asettica» tecnologia digitale gli esiti «caldi» e corposi dei procedimenti analogici di tradizione. Di natura diversa, ma anch’esse qualificate dal rapportare la forma tipizzata ad esigenze di natura tecnologico materiale, vale infine la pena di menzionare le tipizzazioni ottimizzate per la lettura automatica, e che oggi, per evoluzione dei sistemi OCR, sono divenute parte del passato tecnologico. Anche in quel caso, congiuntamente al miglioramento progressivo del processo di riconoscimento a valle, si affinava a monte la definizione di identificativi di forma sempre più minuti ed efficaci, liberando la fisionomia dei tratti.

Ci si ferma volutamente qui, infatti non è questo un trattato di lettering, per dirla all’inglese. Nell’ultima parte di questa sezione dedicata all’anatomia, si è tuttavia ritenuto utile motivare un condensato parziale di fondamenti progettuali. Ciò a partire da alcune osservazioni didattiche formulate in varia bibliografia da Aldo Novarese, il più rappresentativo dei tipizzatori italiani della modernità, ad un tempo custode rigoroso e geniale innovatore, nondimeno in considerazione dei più comuni accorgimenti che i professionisti del disegno di lettere ben conoscono e praticano. Lo scopo è di completare la disamina sulla forma tipizzata, ribadendo ancora una volta come essa sia esito di una disciplina estremamente complessa, che coinvolge procedimenti autenticamente progettuali, nel coordinamento di mezzi, obiettivi e requisiti, cui devono altresì concorrere competenze tecniche, scientifiche ed umanistiche di ampio spettro disciplinare.

 

 

 

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  1. È il medesimo «meccanismo» di cui ci si avvale ad arte nella progettazione dei logotipi, affinché appunto il riferimento alfabetico divenga il «pretesto» per esprimere e condensare più estesi significati. ^rif.
  2. Vale a dire, con fraintendimenti rispetto al quadro storico e ai pretesi riferimenti connotatativi: ad es. un tipo calligrafico usato quale lapidario, un ottocentesco applicato in un contesto esplicitamente seicentesco, ecc. ^rif.
  3. A doppia punta. ^rif.
  4. Continuo, a lettere staccate, veloce, lento, condensato, arioso. ^rif.
  5. Spessore e lunghezza/altezza. ^rif.
  6. Estesamente in: A. Novarese, Il segno alfabetico, Torino, Progresso grafico, 1971. Successivamente ripubblicato (1990, 1998) a cura di Piero De Macchi suo allievo e collaboratore allo Studio Artistico Nebiolo. ^rif.
  7. Esemplificativamente si cita qui la lezione-conferenza tenuta da Francesco Simoncini al Politecnico di Torino, Facoltà di Architettura, nel 1965, a tema «Leggibilità e funzionalità dei caratteri da stampa». ^rif.
  8. A cui l'Eurostile aggiunge il minuscolo. ^rif.
  9. Maestro anche di Aldo Novarese e suo predecessore, in Nebiolo, alla direzione della tipizzazione. ^rif.

 

 

 

«prec.  la forma delle parole  succ.»