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Gamma seriale: dimensione

Articolazione dimensionale


2.6.4 gamma seriale: dimensione
Unità, parametri e misure per la qualificazione dimensionale dell’alfabeto.
Gli alfabeti si misurano in punti tipografici. Semplice! E invece no! Ancora una volta le ragioni tipografiche si dimostrano sovrapposte e molteplici. Come succede del resto in altri ambiti di misurazione, anche qui non esiste un unico standard ma più sistemi di riferimento. In tipografia essi risultano correlati, caso per caso, al contesto storico, all’area geografico culturale, al quadro tecnologico. In origine i caratteri da stampa avevano di fatto una dimensione propria, essendo spesso realizzati in unica misura, con al massimo qualche variante singolare per note o titoli. Con l’estendersi delle serie, la specifica declinazione dimensionale venne associata, in sistema alquanto precario, all’identificativo onomastico del carattere: talora scelto in relazione all’uso, altre volte riferito alla proporzione, alla foggia, al disegnatore, o all’opera editoriale per cui il tipo era stato originariamente approntato. In pratica, il tipizzatore realizzava la sua fisionomia di alfabeto in una o più «grandezze» cui legava nomi distinti: i casi esemplari di maggiore diffusione si tradussero poi d’abitudine in sinonimi convenzionali di una data misura, ovviamente con ampio margine di approssimazione. Questa prassi, divenuta tradizionale, sopravvisse poi per un certo tempo anche dopo l’introduzione di riferimenti unitari.

Consonate ad un più vasto fervore razionalistico, che coinvolgeva anche le discipline applicate e la metrologia, il primo a normare in tipografia uno standard di misurazione oggettivo fu il francese Pierre Simon Fournier, introducendo il «punto» nel suo Manuel Typographique del 1764-68.

Fournier, prototipi


Rimediando agli approssimativi tentativi di sistemazione dei suoi predecessori, egli istituisce un’unità tipografica certa e stabile, il punto tipografico, di misura oggi approssimabile a 0,344 mm. Ne indica multipli e graduabilità: sei punti formano una linea, dodici linee un pollice (dodicesima parte del piede). Individua così implicitamente la proporzione 1/72, fra punto e pollice, destinata a divenire caposaldo della «metrica» tipografica. Due pollici (deux pouces) compongono la scala massima, un punto è la minima graduabilità dimensionale prevista nella sua scala.1 Fissa, infine, delle tipizzazioni di riferimento debitamente dimensionate, i prototipi, che riprendendo l’onomastica tradizionale estendono la confrontabilità oggettiva anche alla prassi nominativa allora usuale.

Fournier, esteso prototipi


Successivamente François Ambroise Didot uniforma le grandezze al pied de Roi, riferimento di misura istituzionale; si avrà così il punto Didot, il cui utilizzo si radica anche in Italia, così come in buona parte d’Europa. Oggi approssimato a 0,376 mm, ha multiplo di dodici punti detto riga o cicero, dal nome che nella scala Fournier corrisponde a questa dimensione.2 Verso la metà del XIX sec. inizia ad avere diffusione un secondo standard tipometrico, riferito viceversa al piede angloamericano, utilizzato appunto in quell’ambito geografico culturale: qui l’unità si fa convenzionalmente corrispondere a 0,351 mm, e la riga è detta pica (probabilmente in relazione ad un particolare formato medievale d’uso liturgico).

Oggi, con lo sviluppo dei sistemi digitali, è progressivamente divenuto standard prevalente il cosiddetto punto elettronico o postscript (dall’omonimo linguaggio di descrizione pagina) esplicitamente riferito all’esatto rapporto di 1/72 di pollice, e in pratica traducibile in 0,353 mm.

Queste minime variazioni oltre il primo decimale, peraltro ulteriormente soggette a tolleranze ed interpretazioni, potrebbero apparire ininfluenti dettagli, questioni davvero di margine, di lana caprina si suole dire. Eppure su questi temi in tipografia sono state disputate roventi ed irrisolte battaglie: industriali, nazionalistiche, teoriche, classificatorie. Giunse infine il dilagare del digitale… (ed i linguaggi e le applicazioni egemoni) a «piallare» tutto senza troppe discussioni: e forse in questo caso è stata cosa buona. Del resto, potendosi ora gestire i riferimenti unitari con virtuale disinvoltura, c’era molto altro di più interessante su cui non essere d’accordo: gli standard web, tanto per indicare una questione a caso. Il campo grafico, per natura e storia, non è luogo di concordia.

sistemi tipometrici


Stabilite le unità, cosa dunque si misura? Specialmente riducendo l’ambito alla tecnologia di stampa d’impiego oggi prevalente, vale a dire non più «a caldo» ma a base digitale, possiamo genericamente considerare la tipizzazione come geometria bidimensionale: verticale ed orizzontale risultano quindi formalmente sufficienti.3 Tuttavia anche confinando il quadro allo specifico tipografico piano, ancora non ce la potremmo cavare troppo banalmente. Vi sono misure generali e di dettaglio, grandezze assolute e rapporti proporzionali e, soprattutto, ogni tipizzazione si compone e distingue con relazioni proprie.



misure e rapporti verticali

Nelle interfacce software di composizione, accanto all’opzione di selezione della font vi è in genere quella per impostarne la grandezza, in particolare il corpo, vale a dire la dimensione dello sviluppo verticale della tipizzazione. È ovvio che, essendo il disegno del carattere strutturato in proporzione, agendo su questa misura si otterrà anche una precisa corrispondenza sull’asse delle larghezze:4 ed infatti il corpo rappresenta un riferimento molto pratico nell’impostazione dell’impaginato. È tuttavia misura meno esaustiva di quanto diffusamente si sia indotti a pensare. Tecnicamente è identificabile come avanzamento minimo, cioè lo spazio strettamente necessario e sufficiente ad ospitare una riga di testo, ovvero il modulo minimo per la tessitura verticale delle righe. Dimensione dunque macroscopica, composto di misure e relazioni che solo congiuntamente contribuiscono a qualificare la caratteristica effettiva della tipizzazione. Due margini, spalle, eccedono rispettivamente il limite superiore ed inferiore dell’intero grafismo, l’occhio.5 Esse hanno il compito di preservare la corretta sovrapposizione delle righe di testo, contenendo appunto la tipizzazione in altezza. Al suo interno, la struttura verticale è definita rispetto a due allineamenti fondamentali, l’allineamento medio superiore e medio inferiore, da cui si dipartono rispettivamente ascendenti e discendenti delle minuscole. Si individua così quella porzione essenziale della tipizzazione, l’occhio medio, che è occupata da tutte le lettere, ed entro cui, in particolare, si contengono le minuscole prive di estensioni: es. a, c, e, i, m, n, o, ecc. L’allineamento medio inferiore costituisce inoltre la linea di base sulla quale poggia idealmente l’intera tipizzazione. Nella organizzazione verticale si delineano poi l’altezza delle maiuscole, l’allineamento superiore degli accenti e della punteggiatura (rispettivamente su maiuscole e minuscole), ed altri elementi più liberi ed eventuali, legati alla dinamica dello specifico disegno: gli allineamenti inferiori di code, cediglie, ecc., o la previsione di una porzione eccedente il corpo, crenatura, per ospitare parte delle apposizioni più esterne, es. accenti, svolazzi, legature, ecc.

misure verticali


Come detto, i valori assoluti e relativi di tutte queste dimensioni qualificano, nel complesso, il carattere: dal punto di vista stilistico, dell’impatto visivo ed anche nella natura funzionale. Per fare un esempio, un’eventuale maggiore altezza delle ascendenti, rispetto alle maiuscole, determina in genere un fattore di dinamicità ed una evocazione calligrafica. Ma il rapporto che fra tutti appare di maggior rilievo è quello tra occhio e occhio medio, in particolare laddove si debbano ottimizzare le esigenze di leggibilità in relazione al contesto. Ed infatti esso fu colto come qualificazione strategica, specie nel recentissimo passato, caratterizzato dal problema di una rappresentazione alfabetica di qualità su supporti ottici ancora di risoluzione troppo discreta. Alla riduzione del differenziale tra queste due misure corrisponde infatti, a parità di corpo, un aumento della dimensione relativa del carattere nella sua sezione centrale. Funzionalmente tale rapporto si concretizza in una maggiore grandezza percepita, in virtù di una proporzionale apertura dei contrografismi e una meno condensata progressione orizzontale di aste e terminali, che dunque risultano ben scandite anche a risoluzioni modeste. È questa una delle strategie adottate, ad esempio, dall’utilizzatissimo carattere Verdana, a suo tempo appunto concepito per risolvere alcune problematiche degli utilizzi multimediali, in particolare web, di cui è pietra miliare.
verdana


Non si tratta d’altro canto, nemmeno qui, di ricetta unica, tantomeno universale. Se infatti l’apertura dell’occhio medio può essere eventualmente corroborata dal concorso di accorgimenti di altra natura (tipologia dei terminali d’asta, geometria delle curve, calibrazione dei contrasti, hinting), per altro verso l’avvicinamento delle proporzioni tra maiuscolo e minuscolo ma, soprattutto, la riduzione dell’estensione relativa di ascendenti e discendenti, rispetto al corpo centrale della lettera, non produce indistintamente la medesima resa. Deprime infatti alcuni fattori specifici di differenziazione che, se di disturbo o comunque inefficaci alle basse risoluzioni, sono viceversa favorenti la leggibilità in altri contesti, dove potrebbero risultare invece ben percepiti. Questa puntualizzazione per ribadire, una volta ancora, che tutto quanto coinvolge il segno alfabetico si trova sempre legato a interrelati equilibri, i quali si possono certamente valutare anche in relazione ai rapporti dimensionali.

occhio/corpo


misure e rapporti orizzontali
Sull’asse orizzontale la tipizzazione può misurarsi rispetto a tre dimensioni principali, specifiche dei singoli grafismi ed ovviamente legate al corpo del carattere: larghezza, avvicinamento, accostamento. Per derivazione, se ne correlano altre due d’insieme, in riferimento alla lunghezza dell’alfabeto maiuscolo e minuscolo. Per larghezza s’intende lo sviluppo orizzontale dell’occhio, traccia appunto specifica per i diversi segni. L’avvicinamento compone invece larghezza e bianchi laterali propri del segno. L’accostamento, infine, misura lo spazio orizzontale che separa peculiarmente due grafismi contigui. Si tratta di entità individuali che le distinte tipizzazioni assegnano di progetto ai caratteri singolarmente o/e per coppie specifiche. Nella modellizzazione ottica e poi digitale, caduto il vincolo materiale, esse possono intendersi come rapporti ottimizzati, misure d’equilibrio, indicazioni di maggiore convenienza istruite dal tipizzatore, dunque non più parametri fisici solo molto laboriosamente valicabili.6 Di necessità, e con debita perizia, oggi sono infatti ragionevolmente ridefinibili, sia in casi puntuali sia nel contesto specifico o globale dell’impaginato. Per esemplificare evenienze piuttosto comuni, vi si può intervenire per regolare l’accostamento dei capilettera al testo, per specificare la scansione di maiuscole e maiuscoletti d’intestazione, per rifinire l’assetto delle spaziature nelle composizioni giustificate, per ottimizzare otticamente il testo in funzione del supporto, ecc.

Per quanto riguarda le dimensioni d’insieme, la lunghezza d’alfabeto indica, in maiuscolo e minuscolo, lo sviluppo orizzontale complessivo prodotto dalla successione accostata di tutte le distinte lettere di una data serie tipizzata.7 Essa ovviamente costituisce una misura astratta, ma al contempo parametro di valutazione estremamente significativo, soprattutto nelle fasi di progettazione degli artefatti grafici in cui la componente testuale sia di certo rilievo quantitativo. È d’ausilio, infatti, ad operare le opportune scelte in merito alla determinazione delle giustezze,8 così come, negli impaginati corposi, anche di struttura e consistenza delle segnature. Tradotto in termini più pratici, considerato che nella composizione del testo esiste un numero ideale di caratteri per riga cui tendere convenientemente, la lunghezza specifica dell’alfabeto potrà indirizzare variamente all’uso di una tipizzazione piuttosto che di un’altra, ad una opportuna graduazione di corpo o tessitura, così come alla calibrazione di formato/proporzione di pagina e dei relativi margini: ciò in relazione predittiva del numero di fogli e della struttura globale dell’impaginato.

misure orizzontali


Chiudendo sulle dimensioni, è bene ancora ribadire come nel contesto digitale il grafismo acquisisca grandi potenziali di elasticità, non solo nei fattori formali ma anche nei parametri dimensionali, trovandosi esso del tutto svincolato dal supporto materiale, e strutturalmente affidato alla virtualità. Questi estesi gradi di libertà sono oggi resi disponibili attraverso funzionalità software sempre più articolate e pervasive, che tuttavia dovrebbero essere usate assai selettivamente, con proporzionale sapienza di sostanza, parsimonia, e in talune opzioni per nulla! In composizione, ad esempio, saranno sempre prevalenti le ragioni di deprecabilità nella modifica delle proporzioni di una font,9 piuttosto del contrario. Fatti salvi, s’intende, casi molto specifici, spesso strumentali a processi applicativi e/o creativi eterogenei alla normale composizione. Rispetto ad altri fattori, ad esempio nella definizione delle spaziature verticali ed orizzontali, lo svincolamento dalla fisicità di spalle, interlinee ed avvicinamenti consente, all’opposto, di avere disponibili strumenti di grande praticità ed efficacia; se ben utilizzati, essi conducono ad un incremento assoluto di compiutezza nella rifinita tessitura del testo, controllo viceversa non sensatamente raggiungibile, in questo grado, con i metodi pre digitali.

 

 

 

gac

 

 

 

  1. Fino a 2 linee (Cicero, 12 punti) con graduazione di 1 punto, da 2 a 4 linee (Palestine, 24 punti) con graduazione di 2 punti, poi a salire di 4 e multipli fino al prototipo maggiore (Grosse-Nompareille, 96 punti). ^rif.
  2. Con riferimento, appunto, all’autore dell’opera (Cicerone) per la stampa della quale il tipo era stato in origine creato e impiegato. ^rif.
  3. Pure se liberati dalle dipendenze «meccaniche» della materia, i caratteri sono oggi correlati a moltiplicate tecnologie, e riprodotti su supporti e in contesti di eterogenea natura. Quindi, per descriverli, sarebbe in realtà necessario adottare una nozione «dimensionale» ulteriormente analitica, la tipizzazione dovendosi d’evidenza confrontare con un concetto di grafismo alquanto ampliato, di fatto generalizzabile a segno visivo delineato su fondo di supporto, anch’esso di pluridirezionale evoluzione. Così, nel misurare, risulterebbe forse utile il distinguo tra grafismo tracciato e «impresso». Nel primo caso, riferendolo appunto al dato geometrico puro: traccia semantica (esplicita) rilevata sul contrografismo (implicito). Nel secondo caso, marcando invece il flusso percettivo in sé. Non più di necessità segno apportato su veicolo cartaceo o stagliato concretamente su altro materiale, in questo secondo significato il grafismo potrebbe essere più largamente inteso come ciò che del mezzo fisico indirizzato alla percezione visiva di risalto vi imprime dato semantico. Osservando da questa prospettiva, i parametri dimensionali tradizionali, di cui stiamo trattando, non risultano più compiutamente significativi e dovrebbero forse estendersi sul piano delle intensità, delle frequenze, delle persistenze. Ma questa è una storia in gran parte ancora da scrivere. ^rif.
  4. Da considerare che se la proporzionalità è certamente rispettata nelle dimensioni del segno in sé, ciò non è in genere vero in merito allo sviluppo orizzontale complessivo del testo. Infatti, le tipizzazioni di qualità prevedono una consistenza dello spazio tra i segni (accostamento) inversamente proporzionale alla dimensione del corpo. ^rif.
  5. Nel definire l’occhio un tempo si sarebbe correttamente specificato «grafismo stampante»; diciamo che oggi esso si può far più compiutamente corrispondere alla dimensione verticale massima di progetto di una certa serie alfabetica, bianchi propri esclusi. ^rif.
  6. Ad esempio, con spaziature minute e individuali segno per segno. ^rif.
  7. La misura è ovviamente specifica per le diverse font, nelle distinte serie e variazioni delle stesse. ^rif.
  8. In uno schema compositivo, la larghezza strutturale stabilita per la riga di testo, da margine a margine opposto. ^rif.
  9. Con ovvio riferimento ad una tipizzazione di qualità, l’unica del resto che abbia senso utilizzare. ^rif.

 

 

 

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