la forma delle parole · 2 le parole che scrivo
Gamma seriale: onomastica e «cassa»
Nella gamma, oltre la gamma
A completamento della disamina sulle qualificazioni seriali si rendono opportune alcune notazioni, sia di valenza complessiva, sia riferite agli usi digitali in particolare.
2.6.8 estensioni di gamma
Specificazioni ed individualità.
Come accennato, di rado si incontrano caratteri in grado di essere declinati con ampiezza di estensione seriale: in parte per geometria propria dei grafismi, per altro verso in relazione alla propensione funzionale delle varie fisionomie. Detto diversamente, per ogni tipizzazione si configura uno specifico ambito di declinabilità, definito da limiti di coerenza tecnica, tipologica ed espressiva.
Articolandosi per gamma, le tipicità del disegno possono mutare anche in modo considerevole, specie agli estremi seriali. Benché appoggiata a comuni tratti identitari, la progressione delle varianti conduce talora ad entità di sostanza autonoma. Ciò è riscontrabile con immediatezza in merito alle variazioni di tono e larghezza: tra le serie nera e chiara, espansa e condensata, di un medesimo progetto, spesso si manifestano punti di discontinuità almeno pari a quelli di congruenza.
Le direttrici magari restano comuni, ma ne può cambiare l’espressività: si osservino soprattutto gli elementi più delicati e sensibili, come gli occhielli delle minuscole, la geometria delle aste curve, l’impatto visivo di connessure, attacchi e troncature. Qui, il mutare dell’intenzione originaria è conseguenza quasi inevitabile. In assenza di opportuna mediazione, un’eco calligrafica potrebbe dunque confluire in uno stilema del tutto autoriferito, un delicato vezzo in un inutile appesantimento. Sta così alla sensibilità del tipizzatore decidere fino a che punto spingere le eventuali variazioni di serie e dove, nel caso, riconsiderare la matrice in favore di un nuovo equilibrio. Questo, fra altri, il motivo tecnico per cui, allo stato dell’arte, certi automatismi virtuali di declinazione seriale non si possono considerare affatto virtuosi.
Nella tipizzazione digitale, così come nelle precedenti forme tecnologiche, non è infatti infrequente che il progettista si trovi nella convenienza di apportare correzioni al disegno di base: di natura metrica, geometrica, ottica o variamente percettiva. Talora per rendere «sostenibile» l’applicabilità del carattere in distinti contesti funzionali, altre volte per ottimizzarne la resa a specifiche dimensioni. Secondo buona norma, queste puntuali qualificazioni si dovrebbero ritrovare affisse al nome della font con notazione esplicita, ad indicarne le condizioni di migliore usabilità, vale a dire la mirata intenzione che ne ha informato la particolare variante. I casi sono molteplici. I più comuni recano le apposizioni descrittive Poster, Display, Subhead, Regular, Small Text, Caption: esse indicano, rispettivamente, l’ottimizzazione per corpi grandissimi maggiori di 72 punti, corpi titoli 19-72 punti, corpi sottotitoli 14-18 punti, corpi regolari 8-13 punti, corpi piccoli 8-10 punti, corpi molto piccoli 6-8 punti.1 Altre volte può trovarsi in suffisso una precisa misura di predilezione (es. 8, 10, 12, 72, ecc.), e ancora l’ambito alfabetico o alfabetico-funzionale di pertinenza: es. Titling Caps, Small Caps (SC), Alternate, Expert, rispettivamente per maiuscole da titolazione, maiuscoletto, grafismi alternativi, complementari e speciali.
Presa a riferimento la dimensione «normale», nelle tipizzazioni di qualità la tendenza generalmente osservabile concretizza sezioni d’asta inversamente proporzionali al corpo: corpi grandi alleggeriti, corpi minuti rafforzati. In altre parole, nei primi si «scarica» il tono delle aste, poiché la maggior dimensione definisce con più forza la forma, e gli spessori normali risulterebbero eccessivi, mutando il «colore». Nei secondi, col ridursi del corpo oltre una certa soglia, si determina invece un relativo decadimento di tono e di definizione. Vi si compensa attraverso il rafforzamento dei pieni, l’eventuale riequilibrio di taluni contrografismi interni e, in genere, con l’espansione degli accostamenti, quindi con proporzionale incidenza sulle lunghezze d’alfabeto.2 Si tratta ovviamente di interventi minutissimi, su equilibri altrettanto delicati.
Con l’introduzione del formato OpenType, che appoggiato alla codifica Unicode riunisce le serie in unico «scatolone», molte delle qualificazioni suddette potrebbero dirsi avviate ad obsolescenza, sia perché in certi casi del tutto omesse, sia perché ora, inglobate nella gestione unitaria delle individualità, spesso risultano sottese in modo implicito e preconfigurato(!?). Ciononostante, qui vale ancora la pena di rilevarne almeno il metodo. Infatti, come si argomenterà meglio a seguire, la nuova sistematizzazione onnicomprensiva, accanto a numerosissimi pregi,3 reca risvolti la cui riconsiderazione, o (almeno) più delicata gestione, non si rivelerebbe affatto involutiva.
Utile infine precisare che le specificazioni onomastiche possono talora travalicare la stretta qualificazione di gamma, estendendosi ad indicare riferimenti commerciali, quali ad esempio prefissi di fonderia (ITC, Bauer, Agfa, Lino, ecc.), o marcature di versione. La prestigiosa stamperia Valdonega, ad esempio, sviluppò per l’uso digitale alcune speciali e riservate serie (VAL — Valdonega Aesthetic Line), affinché ricalcassero fedelmente in stampa la resa dei corrispondenti tipi fisici tradizionali. Altresì evidente che anche in questo tipo di attribuzioni atipiche permane una innegabile valenza seriale.
2.6.9 varietà e sintesi nell’era digitale
Lo «scatolone»! Gli «scatoloni»! Che «scatoloni»!
Negli odierni usi digitali la massa delle variabili che può accadere di trovarsi prospettata in unica soluzione potrebbe facilmente disorientare e indurre fraintendimenti. L’«innocuo» file di una singola font può oggi contenere varietà che si contano in decine di migliaia, nel caso base 65.536 posizioni potenziali.4 Le 256 gestite dalle codifiche di generazione appena precedente potrebbero per questo evocare giudizi di assoluta inadeguatezza, specie in taluni osservatori di fresca esperienza digitale. In realtà le cose non stanno proprio così, nel senso che il comporre in un singolo contenitore il complesso esteso delle varianti seriali, prodotte o ipotizzabili, può condurre a difformità piuttosto che a coerenza. Oltre un certo limite, tali varianti più che opzioni diverranno spesso mere pretese. L’identità delle fattispecie tipizzate, benché modulabile in specifici ordini formali, non ha infatti costituzione indistinta: raggiunta una prevedibile soglia, avviene inevitabilmente una sorta di salto di specie.
Tralasciando i dettagli tecnologici che attengono la codifica e gli standard delle font digitali,5 va detto che tutta questa abbondanza fortunatamente rimane in buona parte solo allo stato potenziale. Quando non lo è, vale a dire nei casi in cui una singola font giunge a condensare casistiche seriali significativamente numerose ed estese, la questione dell’opportunità — se non della sensatezza — di questi accorpamenti diviene allora tutt’altro che teorica. Sintetizzando con esempio «elementare», già dai primi rudimenti aritmetici tutti infatti sanno che mettere insieme mele con pere, o addirittura con patate, risulta perlomeno problematico...
Si è descritto in precedenza come ogni singola tipologia tipizzata, e ogni caratteristica in essa compresa, sia esito di evoluzione specifica, con cronologie, ragioni e contestualizzazioni proprie che ne qualificano l’espressività semantica. E pur vero che, nonostante le distinte radici, oggi sia assolutamente lecito ritenere che un determinato «tondo» possa trovare automatica corrispondenza in un altrettanto determinato «corsivo», secondo gli sviluppi dell’uso canonico; così una data dimensione in una minore o maggiore, sebbene in origine anche i corpi costituissero entità distinte. Una continuità tanto abituale che non ci risulta stonato perfino vederne raggruppate le variabili in blocco indivisibile: un unico (open)file. Devono porsi tuttavia dei limiti. Il forzare in medesima gamma varietà formali, tonali, geometriche, paralfabetiche, accessorie, interpretative, linguistiche — financo di specie alfabetica! —, illimitatamente e in modo sistematico, è operazione che dovrebbe scoraggiare l’intenzione anche del più disinvolto dei tipizzatori. Si potrebbe obiettare che già Fournier o poi Bodoni — i quali certo non hanno bisogno del sigillo d’autorevolezza dei posteri —, nel formulare i loro compendi tipografici paiono animati proprio da questa idea: riprodurre uniformemente l’intera enciclopedia dei segni per la stampa. Per il Bodoni, in particolare, spaziando largamente dalle lingue «esotiche» fino ai simboli e ai coordinati grafici accessori. Seguono vari suoi alfabeti.6
Ma anche qui, tanto quanto si percepisce chiaro lo spirito unitario — ad esempio nella forza e nella finezza delle intensità di contrasto—, con medesima evidenza continuano a distinguersi, in aderenza ai casi, gli aspetti individuali, esplicitati con rigore categoriale anche nell’ordine onomastico. Ed infatti obiettivo era comprendere coerentemente tutte le possibili fattispecie, non il farlo con un unico tipo universale, un unico «calderone». Si Bodoni..., ma quale Bodoni?7 Qui sotto alcuni corsivi bodoniani.
Abbandonando riflessioni più elevate e venendo al pratico, sia chiaro che, oggi o in passato, si riconoscono ambiti in cui la riduzione di specificità, per non dire un’uniformazione radicale ed estesa, ha motivata sensatezza. Contesti mediali universali o, all’opposto, molto focalizzati, dove il mezzo comunicativo assume funzionalmente caratteristiche di stilizzazione, di sintesi o semplificazione: es. applicazioni per la distribuzione compatta dei testi, per la lettura/trascrizione automatica o per le basse risoluzioni, ma anche piattaforme strutturalmente multilingue, quali sono, ad esempio, i diversi ambienti software di base. Questioni parzialmente in corso d’obsolescenza, ma che in passato molto hanno impegnato ricerca e tipizzatori, lasciando radicata traccia. Altrove, specie dove le componenti percettiva e connotativa rivestono maggiore importanza e non sono ridotte da compromesso formale, una sistematica amplificazione dell’estensione seriale si accompagnerà, senza meno, al concretizzarsi fisiologico di disomogeneità ed inappropriatezze. È dunque il caso, detto in sintesi, di accorpare tutto in un unico riferimento? O, peggio, di forzare virtualmente interpolate estensioni della gamma seriale oltre le radici e le intenzioni stesse del tipo originario?
Questa è la via cui sembrerebbero indulgere alcune formulazioni commerciali ed ancor di più diffuse funzionalità software. So, con questo, di espormi agli eventuali strali di autorevolissimi tipizzatori: penso a chi si è occupato, peraltro assai sapientemente, delle basi universali del web e dei principali ambienti informatici. Ma anche a considerare le inderogabili ragioni della distribuzione universale e uniformata, a voler ritenere vinti i limiti tecnici e di tipizzazione, non può a mio avviso accettarsi come «evaporata» la questione dell’«intelligenza» semantica. Per estendere la comunicazione, limitarne lo spessore è un «trucchetto» poco convincente, diciamola così. Non parrebbe allora un’idea così obsoleta continuare invece a scegliere singolarmente le fisionomie da associare fra loro, tenendole distinte, sia nel nome sia nella consapevolezza delle tipicità e della natura originaria. Questo almeno come metodo, in strumenti e usi professionali; benché il sottovalutare le potenzialità formative di un approccio pieno anche per l’utenza ampia potrebbe rivelarsi inutilmente riduttivo. Diversi per origine e intenzione sono i numeri per le tabelle o il testo, o i maiuscoli e i saltellanti; diverso il maiuscoletto dal maiuscolo, così come ad un tondo potrebbe essere legittimo volersi associare un corsivo eterogeneo, o per apici e pedici scegliere un disegno autonomo; diverso un espanso da un condensato, un chiarissimo da un grassetto, un latino dall’arabo o dall’ebraico. L’idea di comporli attraverso azione esplicita, e non per configurazione preconfezionata, è inoltre corroborata dal fatto che la buona tipografia, di tradizione, si giova dell’uso seriale parco e della centellinata gradualità delle varianze.
Si tratterebbe così di operare su mole non tanto articolata, da doversi appoggiare a funzionalità equalizzatrici di supporto. A corollario di troppo estese font, sono infatti fiorite indispensabili funzioni filtro, di selezione, di articolazione (es. le stucchevoli laconiche opzioni opentype), a puntellare il falso mito dell’automatismo. Già lo strumento digitale degli stili reca, da tempo, potenzialità più che esaustive. Perché riunire tutto per poi trovarsi a distinguere selezioni? Di certo nell’intelligenza, ma anche nell’economia generale, meglio scegliere quello che serve quando serve. Un pericolo del caso opposto è, fra altri, quello di indurre utilizzi impropri di oggetti di cui magari non si conosceva nemmeno l’esistenza o, peggio, di farsene carico inconsapevolmente. Da questo punto di vista, la tecnologia web mantiene maggior rigore, e così sarà fintanto che la sintesi dei flussi di connessione avrà peso significativo.
Più in generale, se una piana semplicità può al limite comprendersi, magari in funzione del contesto, con maggiore difficoltà sono tollerabili qualificazioni di dettaglio poste fuori luogo. Vi sono appunto tipografie, editori e grafici che hanno lavorato splendidamente per decenni con una manciata di fisionomie, e non solo per pratica convenienza. A non volerne ricalcare l’eredità in modo pedissequo, poiché l’espressività si evolve ed è nel naturale solco della storia il desiderio di rinnovare, si scelgano o definiscano pure le proprie. Ma una saggia selezione ridurrà sempre ad un misurato numero, adeguato ad assolvere alla maggior parte dei casi, con ritorno di sicurezza ed efficienza. Ciò detto, è evidente che non si debba ricadere nell’eccesso opposto, mirando a riprodurre, nel mezzo digitale, limiti ed esiti della tipografia a caldo, se non come dichiarata e motivata eccezione. Non si vagheggino rigidamente i tempi antichi, peraltro non sempre così aurei. È invece doveroso sondare del nuovo mezzo ogni potenzialità ed esigenza, a far scaturire innovativi sviluppi, mettendo a frutto il buono delle nuove aumentate libertà. Perché ciò si possa concretizzare come evoluzione, è però fondamentale non accontentarsi di comode soluzioni di continuità; in altre parole, per non perdere il filo con il passato bisogna superarlo nella consapevolezza, pena la perdita di significanza, ed il ritrovarsi poi a ricostituire evolutivamente una nuova semantica. Perché non sbirciare almeno nel secolare corposissimo forziere? Qui sotto estratti da tavole dall’antica Enciclopédie di Diderot e d’Alembert, in «Imprimerie e Reliure».
Evolvere il disegno in direzione di un «tipo» universale è il presente e il futuro immediato, richiesto e giustificato dallo specifico di questo nostro rivoluzionario tempo, di espansione e globalizzazione comunicativa. Ricercare innovative direttrici, pensando al lungo termine, dovrebbe essere dovere di responsabilità, oltre che un piacere intellettuale. Cosa diversa, però, è ammucchiare tutto, cedendo controllo e priorità di senso all’ordine informatico, per non dire di marketing, che deve in questo restare strumento dichiaratamente e rigorosamente subordinato. Si osserva, purtroppo, la tendenza opposta.
gac
- S’intendano le dizioni «grande, piccolo, ecc.» non con valore assoluto oggettivo ma genericamente percettivo. Sono accettabili dunque alcuni margini di elasticità nella caratterizzazione delle dimensioni, in dipendenza del particolare equilibrio di ogni tipizzazione, specie nei rapporti occhio/occhio medio, tono/larghezza. ^rif.
- Alla riduzione di corpo di un testo (misura verticale) non è detto corrisponda una identica contrazione dello sviluppo orizzontale. Ciò ha rilevanza specie in merito a questioni di fisiologia ed ergonomia della lettura: «cicli» di contrasto, angoli fovea, lunghezze riga, parole per riga. ^rif.
- Uno su tutti, l’interoperabilità multiambiente. ^rif.
- Questo lo standard Unicode nella versione originaria (16 bit). Le successive evoluzioni hanno condotto ad una codifica ancora più estesa (21 bit) portando il bacino delle posizioni teoriche oltre il milione (1.114.112). Vi è così la base per poter catalogare unitariamente tutti i segni di tutte le scritture/lingue conosciute, storiche o vive, ed ancora per ulteriori usi proprietari o specifici. Ordinate in 17 piani (ambiti coerenti, 0-16) di 65.536 unità ognuno, la gran parte delle «caselle» risultano di fatto non occupate (10 piani). Di quelle con corrispondenza già definita, o comunque riservata, il solo piano originario (Basic Multilingual Plane) è sufficiente a dare ampia corrispondenza a tutti gli alfabeti comunemente in uso. ^rif.
- Si tratta, infatti, di questioni più informatiche che grafiche. Ordini decisamente intricati ed in continua e battagliera evoluzione, molto lontano delle intenzioni e dall’interesse di questa trattazione. ^rif.
- Col.1: ebraico, rabbinico, caldaico, siriaco, siriaco rotondo (estrangelo), arabo, tartaro. Col. 2: samaritano, armeno, etrusco, fenicio, gotico d’Ufila, palmireno, punico. ^rif.
- Qui non potendo che ripetere, lo ammetto, le parole con cui mi ammaestrava un caro amico che ho avuto la fortuna di poter frequentare per qualche tempo, cultore appassionato e finissimo del Saluzzese. Nulla verrebbe, se non a me, dalla sua citazione esplicita, ma lo si potrà scorgere in una delle grafiche che illustrano questa seconda sezione del saggio. ^rif.
«prec. la forma delle parole succ.»