attualità
Urge avvertire
D’accordo è un gioco! Ma se nascondesse invece un segnale?
Prevedibilmente assai localizzata e fugace, oggi moda di freschi adolescenti, di dizione artatamente circonflessa è l’auto definito parlar corsivo, con fraintendimento etimologico e sostanziale che evidenzia vertiginose lacune di competenza.
Banalità tanto minima quanto può esserlo un innocuo estendersi di crepe capillari su neve ventata, cui facilmente sottende la valanga. Meglio forse considerare altra strada.
Tipologia grafica, il corsivo non è una deformazione. Non è un’alterazione delle lettere, una forma strascicata e mal comprensibile, stirata a piacere, per gioco, per moda, per caso. Il corsivo è all’opposto una formulazione elegante e chiara, con origine e ragione propria, tratti finemente definiti e regolati, uso altrettanto specifico e per nulla segreto. Così almeno dovrebbe essere noto e sperimentato fin dalle prime scuole, com’era abituale per chi legge e scrive. Associare questo nome alla recente moda di parlare deformato è dunque del tutto inesatto, poiché rimanda ad una corrispondenza falsa e fraintesa, anzi opposta e inquietante.
Fuor da onomastica, pesando l’associabilità e l’originalità dell’aberrata dizione, risulta più immediato riscontrarne talune assonanze con il birignao, quella recitazione di artefatto tono nasale e vocali allungate, caratteristica di attori e doppiatori dei primi decenni del Novecento.
Questo lo stretto necessario, detto fin qui cercando il modo più semplice, stringato e accessibile, pur con sacrificio di precisione e sfumature, dunque con pregiudizio di compiutezza e profondità. La constatazione che le competenze in lettura segnano significativo decadimento, specie in alcune novizie fasce generazionali cui si rivolge l’avviso evidenziato nelle precedenti righe, ha infatti imposto di stagliare innanzitutto la questione per tratti essenziali irriducibili. Si è accettato così, per forza maggiore, di privarla dell’utilità di maggior approfondimento: ad esempio a proposito dei registri linguistici parlati e scritti, di ambiti e mutazioni culturali, di forma e significato nel codice, di tecnologia, tecnica e tecnicismi; soprattutto si è sorvolato sulla precisazione delle diverse declinazioni cui il termine corsivo è associabile in merito al comporre con lettere: dagli archetipi ad oggi, nella scrittura manuale e calligrafica, nella stampa tradizionale, e poi nelle mutazioni digitalizzate.
Dal latino currere (serve traduzione?), si tratta di una qualificazione tipologica (più che di un’unica tipologia) che ha fattor comune nell’andamento proclive delle lettere, più o meno legato e dinamico. Ciò in concreto si traduce in varia sorta di propensioni, accostamenti, avvicinamenti, legature: come già in primigenie scritture annotate con mano veloce, cui nel tempo seguiranno in progressione mature e fluide calligrafie, fino al canonizzarsi di un primo «tipo» a stampa, non molto dopo l’invenzione di quest’ultima. Il corsivo ha aspetto in genere più chiaro del corrispondente «non corsivo», detto tondo. Formulazione nobilissima, nasce tipograficamente alle soglie del Cinquecento ad opera dell’incisore Francesco Griffo per il lungimirante impulso dell’editore veneziano Aldo Manuzio, che in quella fisionomia leggera e nitida, scorrevole e compatta, intuì le doti perfette per condensare il testo nell’inedito formato in ottavo, dalla dimensione alquanto ridotta rispetto a quella comune abituale, e così molto maneggevole e trasportabile. Di quelle snelle ed «economiche» segnature di tre pieghe, otto carte, sedici pagine, compose i tomi delle sue famose Aldine, dando iniziazione alla vera natura, diffusiva, editoriale e commerciale, del libro a stampa. Tutt’altro che interpretazione semplicisticamente inclinata del tondo, anche nelle tipizzazioni essenziali — almeno quelle degne — il corsivo ha propria forma di lettere e caratura propriamente misurata di aste ed articolazioni. Oggi raramente è adottato come soluzione tipologica principale, piuttosto lo si usa coordinato al tondo in titoli, citazioni, e comunque per rilevare i contenuti dal contesto. Altrove nel sito si potrà trovare...
Non è però qui d’interesse l’addentrarsi nell’attrattiva complessità del tema, la contingenza palesa invece l’urgenza di altro, di uno spolvero dei basilari fondamenti pensando avanti a noi. Si garantisce, infatti, che il tema dell’avviso non sia riducibile a pedante puntiglio, a futile rigidità onomastica, magari legata a reazionaria miopia e chiusura al nuovo, alle fluttuazioni mutazionali che, si sa, son parte dei processi evolutivi, e in maggioranza son destinate a perdersi. Si tratta esattamente dell’opposto, di attenzione al futuro, allo sviluppo buono di quanto oggi è in potenza.
Il punto essenziale della vicenda, solo apparentemente di fugace banalità, non dunque dito ma luna, non è certo l’aberrazione onomastica, quanto il perché una tanto rozza svista pare aver avuto gioco facile nell’espandersi ad «evento», finanche a luogo comune, proprio in alcuni contesti che dovrebbero avere certezza di alfabetizzazione sana e compiuta. Quando senza battito di ciglia si dicon pere le mele, il dato si fa problema. La «svista», s’intenda, è collocata più nella distratta e forse goliardica intenzione che nell’uso! Le leggi insuperabili della pratica linguistica sono comunque lì a fare la loro impietosa selezione, e questo in particolare è caso classico. Ma queste scuri, inesorabili nel cassare gli orpelli alla fluenza, nulla possono rispetto alle deformazioni culturali. Si dirà: eccessivo! Perché fare una caso di simile pulce, perché sprecare parole e righe per un gioco semi estivo di ragazzi in cerca di click di approvazione? Soprattutto, perché farlo con tanto di articolato (e circospetto) seguito didascalico? La risposta viene da sola, dal contesto reale: perché a tentar di segnalare la discrepanza, a illustrare il corsivo, quello vero, ci si trova dinanzi ad un muro di malformate abitudini, ormai tanto scontate quanto dure da smontare, da cui corrisponde riscontro di rifiutanti sguardi, tra lo sconcertato e il vuoto. Ma cosa dunque stiamo facendo sedimentare? Cosa ci siamo «scordati» di passare alle future generazioni? Quando anche nei componimenti scolastici si usa una specie di stampatello, o al più una sorta mal legata di esso, stucchevolmente nomata «script», allora appunto non può che risultarci assolutamente comprensibile la ragione di questo incomprensibile. Il corsivo infatti è: come... tipo... quando tu clicchi sul bottone ‘ C ’ e le lettere diventano storte.
Inevitabile così subentri primaria e drasticamente sostanziale l’inesausta riflessione sugli occulti malanni che derivano da approcci approssimativi, non competenti e ineducatamente guidati agli ormai onnipresenti strumenti della comunicazione digitalizzata. Mezzi che detengono delle potenzialità sconfinate, attrezzi per grandiosi salti di qualità e sperimentazioni altrettanto entusiasmanti, e che invece si trovano misconosciuti, sviliti, castrati, e non di rado deviati a finalità opposte alla comunicazione fertile e libera. Da sempre, l’applicazione si è evoluta fisiologicamente in ragione delle potenzialità via via liberate dalla progressione dialettica di tecnologia e strumenti; oggi invece, con sviluppi in cui sono quasi annullati i limiti materiali, si osserva in atto una dinamica inedita, per cui sembra essere l’applicazione a comandare sulla tecnologia. Ciò è buono, si potrebbe pensare… Se non fosse che qui in genere applicazione sta per «app», spesso declinata a recinto preordinato che, proprio per la caratteristica di facilitare l’applicazione, discosta se non maschera la funzione strumentale evoluta e consapevole, non tanto tecnica quanto di pensiero. Le app predispongono per noi, «pensano» per noi. Confinato ad ambito sempre più elitario, l’uso evoluto sembra di fatto destinato a perdere il contatto con la realtà, a cedere comprensibilità, dunque senso effettivo. Trattandosi di comunicazione, di passaggio, sollecitazione, generazione di pensiero, la questione appare non proprio banale. Qual è il bilancio dei vantaggi? Forse il problema oggi molto dibattuto a proposito dell’intelligenza artificiale — quanto lo sviluppo di potenzialità delle reti neurali sia di futura minaccia per gli umani — andrebbe ribaltato: quanto l’appiattimento sulle app — leggi anche interfacce e modalità semplificate e assistite — già in questo tempo induca un minus di potenza nell’intelligenza umana, o meglio, quanto obiettivi, aspirazioni, riferimenti e sostanza culturale ne risultino globalmente condizionabili e condizionati. Nasce proprio da qui il puerile fraintendimento onomastico e tipologico, peraltro non isolato. Quando all’espansione e alla diffusione degli strumenti e dei canali della comunicazione non corrisponde altrettanto allargamento di competenze e consapevolezza, diventa inevitabile il decadimento dell’efficienza, dei significati e, di fatto, delle intenzioni. Non può essere diversamente, utilizzando strumenti solo approssimativamente noti, riferiti a contenuti per lo più ignoti: la famigerata ‘ C ’ che fa il corsivo. Cosa può venire dalla pratica semplicistica di mezzi semplificati, per quanto talora «ben» stereotipatamente agghindati?
Comunicazione e pensiero vanno appunto per mano, e il risultato è presto confezionato. Pur tra gli alti e bassi della storia non si tratta qui di sviluppo ma di perdita, di privare le nuove generazioni di competenze, di celarle e confonderle: abilità e potenzialità dure poi da ricostruire. Nell’epoca in cui si scrive non è più accettabile attribuire questa evidente condizione a ragioni iniziatiche, alle novità della tecnologia e del mezzo. Benché talora rinnovino attenzione processi di inarrestata evoluzione, i fondamenti sono ormai da tempo dati e stabili; né gli usi opportuni risultano formalmente mutati rispetto a quelli legati alla tradizione tecnologica precedente. Considerando che nel contesto degli odierni equilibri la componente mediale ha acquisito posizione sempre più attiva e centrale, non è da leggersi deficit veniale un approccio passivo, approssimativo, non di rado indolente, agli strumenti della contemporaneità, in particolare da parte di coloro cui, nei vari ordini, è affidata la formazione. È quasi del tutto irrilevante esistano centri d’eccellenza, dei poli di conoscenza più o meno limpidi e ristretti, anche qualora non si traessero poi da lì specialisti della semplificazione e del condizionamento. Risulta infatti drammaticamente determinante garantire diffusa sufficienza di substrato culturale: agli educandi ma anche a coloro, tutti, che inevitabilmente si troveranno a confrontarsi con mezzi e canali mediali oggi ineludibili e dall’influenza preponderante. Favorire dunque un approccio attivo, opportuno, originale e consapevole, modalità che si acquisisce solo attraverso sufficiente formazione, corretta pratica dei codici linguistici, approfondimento sulle caratteristiche di strumenti e ambienti. Ciò a tutela, nella migliore delle ipotesi, dal decadimento della materia, della qualità e della pregnanza di contenuto della comunicazione, nondimeno a prevenzione del non così discosto pericolo di utilizzi acefali, sterili, plagiati, autoreferenziali. Come sovente capita di osservare, questi ultimi condizionano l’ordinaria modestia di flussi e artefatti mediali, governati da copia incolla, riproposizione di modelli, afastellamento stilistico, ridondanza di accenti, amplificazione per ripetizione. Per altro verso, e specie nelle modalità sociali, possono dare innesco a mal produttivi circoli viziosi, che tipicamente alternano tra ipo e iper bulia, e talora, più gravemente, mutano in spirali parossisticamente attrattive con condizionamento e risucchio di coscienza. Superfluo citare lo specifico di casi ricorrenti di cronaca, accomunati tutti da fattori di inconsapevole inadeguatezza, incauta fiducia e passività rispetto al mezzo mediale.
Superando latenze e altre priorità, il sussulto di queste righe, trovando nervo vivo di dolorosa contingenza in cui si contrae la già residuale compagine dei glaucopici custodi.
gac