approfondimenti
La qualità è sostanza
Un ennesimo caso esemplare
il fatto
Grazie al mio buon amico Alessandro che sovente mi ragguaglia su eventi grafici torinesi — luogo di anime tipografiche sapienti — mi giunge fra le mani la versione digitale di opuscoletto a tema xilografico, diciamo così. Mi trova in movimento, dunque lo scorro subito anche se su schermo piccino, concentrandomi sul contenuto per poter ricambiare con tempestivo riscontro: mi pare cosa rara e interessante. Per casi vari, tutto resta lì «appuntato» su dispositivo volante. Capita alcuni mesi dopo di ordinare file, e rispunta fuori l’opuscoletto… Rammentavo di un’ennesima lettura forzatamente troppo veloce, dunque voglio completare con il giusto tempo per gustare per bene. Ed ecco il cotanto inaspettato! Ingrandisco sullo schermino, e quella che credevo solo aberrazione digitale si palesa come triste realtà. Un falso maiuscoletto stagliato in titolazione! Numeri maiuscoli nel più calligrafico dei corsivi minuscoli garamoni! Possibile!? Come è potuto sfuggire proprio in riferimento a temi alti di grafica, e proprio a Torino!? In realtà si tratta di caso oggi purtroppo routinario ma, per la quantità di finissimi cultori e maestri che vi ho conosciuto, di là mi aspetto sempre provenire cosa da cui poter imparare, e certamente non motivi di sconforto per degradi tipografici!
Nel mio interesse scompare come sempre il caso specifico e si pongono interrogativi più ampi e generali, sul piano culturale, sulle matrici e le tensioni evolutive, sulle prospettive che dinamicamente delineano l’orizzonte. A maggior ragione lì dove la tradizione grafica è imponente.
causa, effetto
Per darmene spiegazione faccio alcune prove e approfondimenti ma è presto detto, niente di nuovo: sembra proprio che il malefico effetto della composizione digitale guidata dal pullulare di funzionalità immediate e senza intelligenza abbia fatto senza sforzo l’ennesima, autorevole, vittima.
Questo in sintesi, ma per capire meglio dobbiamo procedere per gradi. Partiamo con il dire che si tratta banalmente (ma nemmeno tanto) di un Garamond Monotype, il primo Garamond a diffusione pressoché universale, grazie al fatto che è stato quello reso disponibile da Microsoft fin dagli esordi del suo sistema operativo. A farla breve, la digitalizzazione di una famiglia dei primi anni Venti del secolo scorso che a sua volta ha modello storico principale nella raffinata reinterpretazione barocco-manierista dell’archetipo garamone ciquecentesco incisa da Jean Jannon nel 1615. Vicende interessantissime, di intrecci, riprese, sostituzioni, clonazioni, sparizioni e ricomparse… la fantastica storia della tipografia.1
Tornando a noi, pure avendo ricordo molto vago di aver maneggiato in anni lontani un digitale Garamond Monotype Expert (per intenderci la serie con i maiuscoletti), cercando ora in vari repertori sono riuscito a ritrovare le sole serie maggiori: in tondo, corsivo e grassetto. Anche spulciando in antiche installazioni non ho avuto miglior fortuna, e commercialmente le esatte declinazioni sono citate ma non disponibili. Se non fosse che ho sotto mano il conforto di almeno un paio di autorevoli specimen in cartaceo, sarei tentato di dubitare che quei maiuscoletti non fossero mai stati prodotti, perlomeno in digitale.
Ecco dunque la probabile spiegazione! Vien da sé che incappando oggi proprio in quella famiglia standard, peraltro nobile, e affidandosi forse ai «prodigi digitali», qualcuno incautamente possa aver voluto utilizzare come base di partenza la famigerata funzionalità che millanta maiuscoletti automatici… magari senza nemmeno essersene reso conto. Meno scusabile è che poi, alla luce del risultato, non siano sorte autonome perplessità.
Che dire di più? Il danno purtroppo non è tanto da riscontrarsi nell’atto singolo, ma nel condizionamento dell’immaginario visivo e dell’humus culturale che il sovrapporsi ripetuto di questo tipo di azioni e qualità giunge infine a produrre.
regole
Veniamo quindi alla descrizione di alcune regole, allo scopo di coinvolgere anche il lettore non specificatamente addetto in una osservazione dal medesimo punto di vista in cui si pone — dovrebbe porsi — il tecnico.
Il maiuscolo/maiuscoletto è una delle formulazioni enfatiche tradizionali nella titolazione. D’applicazione relativamente intuitiva, richiede tuttavia l’osservazione di alcune basi minime di conoscenza. Se poi ventura vuole che i testi in causa abbiano ad oggetto proprio l’ambito grafico — magari con pretesa celebrante e seminariale (qui alla lettera) —, e siano esposti in contesti che per autorevolezza di luoghi e nomi evochino sensi di deferenza… la buona pratica si fa obbligo perentorio.
La fattispecie non equivale infatti a «scrivo tutto in maiuscolo con le iniziali in corpo maggiore». Giustapponendo distinte entità dimensionali, infatti, le aste di queste ultime risulterebbero inevitabilmente eterogenee e dissonanti rispetto al resto della composizione: detto in sintesi, fuori scala per tono e spessore.2 A maggior ragione non si potrebbe far ricorso a grassetto o decorazione: lì eventualmente ci si addentrerebbe nell’ancora più complesso ambito dei capolettera.
Proprio per questo motivo, esistono da tempo remoto singole tipizzazioni e, più spesso, puntuali declinazioni di famiglie estese che comprendono serie destinate all’uopo, appunto il maiuscoletto (Small Caps, SC, Expert, ecc.).
Dopodiché… quando si compone in maiuscolo, maiuscoletto, e loro combinazioni, specie se i testi appartengono a titolazioni, acronimi e similia, altra buona regola è che le lettere siano spaziate con respiro adeguato, e non accostate come comunemente si fa nei testi. A parte la migliore resa grafica, evidente alla percezione, ciò rispetta l’archetipo epigrafico aureo, e ancor più in radice l’equilibrio geometrico stesso delle lettere capitali. Questo non varrebbe infatti per maiuscole corsive, o scrittorie in genere, che sono di derivazione calligrafica.3
Visto che di buona prassi stiamo trattando, vale qui la pena ricordare che l’ortografia italiana, a differenza delle consuetudini di matrice anglosassone, fa un uso estremamente parco della maiuscola, certamente non prevista per le iniziali di giorni o mesi.4 Se possibile ciò risulta ancora più stringente in tipografia, specie utilizzando il corsivo minuscolo. Vale per l’alfabeto quanto per i numeri, sicché lì numeri diversi dai minuscoli per alcune sensibilità fan strano come doposcì calzati per giocare a tennis. Da aggiungere che anche per le cifre naturalmente si possono individuare singolarità ed eccezioni, cui forse possiamo decidere di far rientrare i casi espressamente riferiti al calendario, seppure con certa forzatura. Le cifre arabe maiuscole, che oggi vanno per la maggiore, sono in realtà una forma tarda, d’introduzione commerciale, usata inizialmente per lo più in tabelle e resoconti. Nella parossistica proliferazione contemporanea capita che anche tipizzazioni molto diffuse le prevedano come unica possibilità, inducendo forse senza volere la fuorviata idea che per i numeri non vi siano variazioni di cassa,5 salvo per apici e pedici al più. Tuttavia i numeri minuscoli esistono! Son detti anche «saltellanti». Mio nonno, classe 1907, V elementare, radio telegrafista, mai si sarebbe sognato di vergarli indistintamente in maiuscolo o minuscolo, non dimentico forse di altro tipo di vergare del suo maestro. Detto questo, la tipografia evolve così come la lingua e la sensibilità, così nel tempo attuale è infine necessario risolversi ad accettare i numeri maiuscoli come prevalenti.
confronti
Ad ulteriore chiarimento, poiché di qualità visive si tratta, segue un confronto pratico: di come magari si sarebbe potuto diversamente comporre. Volutamente senza rincorrere arzigogoli o estremismi tecnici, ma osservando con semplicità alcune regole di base e selezionando opportunamente tipi e declinazioni seriali.
Giustapposta all’originale in esame, una ricopiatura tal quale sempre in Garamond Monotype, a riprova. Segue una ricomposizione utilizzando una famiglia quasi del tutto sovrapponibile, il Garamond n. 3 (Linotype), che però a mio avviso non ha nella serie maiuscoletta il suo pezzo forte e nemmeno nel corsivo che resta indefinito. Riusciamo a rendere maggior giustizia alle intenzioni originarie attraverso una recente ripresa diretta dello Jannon storico dalla sensibile mano di František Štorm. Approssimiamo qui volutamente su questioni tanto tecniche quanto importanti nella tipizzazione digitale, quali metriche, codifiche, ottimizzazioni dimensionali, specificazioni seriali, ecc. Vale però la pena di segnalare come tipi analogici e digitali siano oggetti che rispondono a necessità molto complesse e molto diverse, specie quando si va a mettere mano a quadri estesi e al dettaglio fine. Utile a questo punto un confronto di massima autorevolezza con due tipizzazioni di Robert Slimbach. Partiamo dal Garamond Adobe, di linea più solida e meno aguzza, affine all’archetipo cinquecentesco più che alla sua reinterpretazione manierista. Evidente la qualità del misuratissimo equilibrio fra le variazioni seriali. Ma non è un fatto stilistico, è proprio una qualità del disegno, come testimonia — stessa mano e fonderia — l’umanistico Jenson in cui un tratto raffinatissimo e sapiente riesce a coniugare equilibrio e dinamicità tonale in un contesto ancora più complesso.6
grafica originale
Garamond — Monotype
Garamond n. 3 — Linotype
Jannon — Storm Type Foundry
Garamond — Adobe
Jenson — Adobe
…e guardando più da vicino si potranno notare ancora più chiaramente come si concretizzino le differenze di uniformità e resa grafica nei distinti caratteri, in rapporto all’opportuna formulazione seriale:
grafica originale, Garamond Monotype, Garamond n. 3
Jannon STF, Garamond Adobe, Jenson Adobe
Evidente come queste qualità siano difficilmente raggiungibili con automatismi! Nè tutti i caratteri per il solo fatto di comparire in repertori o essere digitalizzati sono «buoni», tantomeno «buoni per tutti gli usi», alla stregua, per chi sa, di certo tipo di patate.
appendice
il senso
Autorevolmente mi si segnala: «Cerchiamo il bello e non perdiamo tempo con il brutto.» Affermazione giustissima, bisogna concentrasi sulle cose positive, sono quelle che migliorano e arricchiscono. In contesto tecnico sento però molto la responsabilità di stigmatizzare i degradi, non per crogiolarmi in essi o vantare narcisisticamente pretesa superiorità ma per segnalare appunto che certe pratiche non devono ritenersi accettabili, tantomeno divenire regola, e che si può e deve fare meglio, che la conservazione dei saperi è obbligo anche solo banalmente professionale e altrettanto la loro corretta evoluzione secondo i tempi.
Trattando di questioni che attengono personali bagagli specialistici, è frequente rischiare di incorrere nell’autoreferenzialità, o perlomeno di suggerirne l’impressione. Quel mondo tanto importante e grandemente esplorabile per il cultore lo è certamente meno per chi non lo è. Anche vi si avvicinasse di buon grado, per definizione mancherebbe infatti dei riferimenti minimi necessari per intravvedere sfumature in tinte piatte, intensità in monotonie. Succede in tutti gli ambiti per cui è caso tipico che si dica che per taluno è importante solo la materia di cui si occupa: sia un medico, un insegnate, un musicista, ecc. È un difetto di sintonia che tipicamente ha evidenza proporzionale alla finezza del quadro.
Nella comunicazione tecnica può risultare infatti sensato non reinventare estenuantemente la ruota, anche se certamente utile procedere con gradualità cercando di correlare le questioni a dati di immediata concretezza. Talvolta però l’argomento è così specifico che risulta davvero arduo non ricorrere a sorta di postulati, il che tende a favorire inevitabile scostamento. Il caso del maiuscoletto potrebbe essere uno di questi, esplicitare la ragione stessa di tale declinazione rischierebbe infatti di debordare dalla descrizione della tipicità del caso particolare, per cui andrebbe omessa. Eppure, senza avere la prima, la seconda facilmente apparirebbe indistintamente comprensibile. L’allontanarsi da temi e risoluzioni di comune frequentazione tendenzialmente conduce all’incomprensione e al fantomatico quesito: ma tutta sta «roba» a cosa serve? È davvero così importante o è solo uno stucchevole passatempo fine a se stesso per appassionati esasperati? Si devono dunque riservare questi discorsi ai soli addetti?
Almeno nel nostro caso non possiamo eludere il fatto che la rappresentazione della lingua abbia ragione primaria nel essere territorio comune, condizione essenziale perché la comunicazione si compia. Certo esiste una molteplicità di registro, ma anche la condivisione di questa matrice di varietà è parte del mezzo.
Nelle nostre pagine si ribadisce spesso come la lingua sia pensiero, ancor più quella appoggiata sulla rappresentazione scritta: più il codice è flessibile e regolato, i segni sintetici e pluriassociabili, le qualità declinabili e sottili, più il pensiero che vi si lega si gioverà di potenziale di affidabilità, creatività e profondità. Si consideri come la stringa di appena quattro segni che condensa la Relatività stia impegnando la riflessione scientifica da decenni. In modo consimile la declinazione «epidermica» della comunicazione scritta è parte stessa del codice e risponde a ragioni di precisione ed efficienza nella trasmissione di un universo di sfumature estremamente potente e significativo. Infatti, come dietro alla segnatura di un apice sussistono regole a dare significato, così alla formulazione compiuta della pagina scritta sottendono ordini tutt’altro che arbitrari e vacui. Comprensione e uso di queste qualificazioni si avvicinano dunque più a ragioni di sostanza che di vezzo estetico, come viceversa comunemente frainteso. È quindi comprensibile che il confondimento conduca ad applicazione impropria delle tipologie e allo stesso modo a stupore dell’argomento e ad altrettanto fraintesa idea di pedanteria autoreferente. Ma non è proprio così.
La nostra epoca più che nella proliferazione di algoritmi generativi di pseudo processi cerebrali — chiamiamola pure malamente AI — ha come più dilagante fenomeno il depauperamento e l’omogeneizzazione delle qualità e la loro mistificazione.
Qualificare i testi in osservanza di regole, che vanno conosciute prima di decidere eventualmente di cassarle, è generativo di qualità e quest’ultima a sua volta di sostanza. Le buone pratiche non sono dunque fini a loro stesse ma all’esito che lo strumento linguistico produce, ai significati che genera, conserva e trasmette. Di tanto in tanto bisogna volgere gli occhi al traguardo per comprendere il senso del percorso.
gac
- Volendo si può iniziare a farsene un’idea da qui->, da qui->, e da qui->. ^rif.
- In estrema sintesi, il maiuscoletto è la forma maiuscola applicata organicamente con parametri dimensionali riferiti all’occhio medio, vale a dire all’altezza del minuscolo, ascendenti e discendenti escluse ovviamente. In grafagrafa se ne è trattato varie volte, e diffusamente qui-> ^rif.
- In continuità e a margine si annota che sussistono molte personali perplessità circa il senso stilistico e d’uso del maiuscoletto corsivo, nonostante ne esistano peraltro esemplari di qualità. ^rif.
- Volendo approfondire si può partire con sicurezza dallo storico riferimento di stuoli di tipocompositori di lingua italiana: Giuseppe Orsello, “Preparazione del manoscritto”, in Grafica 1 Scienza, tecnologia e arte della stampa, tomo II 773-4, Milano A. Ghiorzo, 1984 (anche in AA.VV., Enciclopedia universale della grafica e della stampa, Torino, Cits – Ucep, 1985) ^rif.
- Dal nome del contenitore tradizionale, sorta di cassetto, che raggruppava in distinti comparti l’abaco dei segni alfabetici di tipografia. Varie le disposizioni, ma sostanzialmente «cassa alta» per maiuscoli e maiuscoletti, «cassa bassa» per minuscoli, punteggiatura, paralfabetici, spazi, ecc. ^rif.
- Adobe Jenson: non è un tipo facilissimo, che però io tengo nelle posizioni di vertice delle mie personali graduatorie. ^rif.