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la forma delle parole · 2 le parole che scrivo

Questioni controverse e aperte

Spunti e riflessioni conclusive della seconda sezione

 
2.8 questioni controverse e aperte
Sottolineature di sintesi e qualche disordinato appunto di lavoro.
Alla fine di questa seconda sezione de La forma delle parole, dedicata a nature e tipologie scrittorie e in particolar modo alfabetiche, ecco che alcune considerazioni possono essere espresse con pienezza di significato. Si indirizzano, in specie, a chi avesse avuto interesse e perseveranza di leggere fin qui. In un certo senso, è uno sporgere il testimone avanti, oltre questa nostra «era di mezzo».

Si è già avuta occasione di rilevare come all’analisi della declinazione formale della scrittura si trovi spesso associato il non del tutto infondato pregiudizio di essere estremamente settoriale, con qualificazioni che bipolarmente alternano tra una visione quasi esoterica, retorica, emozionale, e l’insostenibile inutile pedanteria. Certo, la materia si compone di argomenti «faticosi», e in questo nostro tempo, allergizzato agli oneri propedeutici, essi vengono reattivamente confinati ai suddetti estremi. Eppure sono questioni reali, concrete, precisamente significative ed effettivamente operanti! Anzi, si trovano sollecitate da attività e applicazioni ormai tutt’altro che di nicchia, le quali si sono moltiplicate e via via estese di contesto. Non più semplice dato di fatto in oggetti confezionati esternamente, la declinazione formale e compositiva dell’alfabeto è oggi elemento di opzione immediata, disponibile alla comune utenza. Chiunque può trovarsi nella condizione di dover/poter specificare una font: di decidere fra un «bastone» o un «graziato», tra una famiglia o un’altra, oppure di dimensionare un corpo testo, un corpo titoli e un corpo note; egualmente potrà capitare di optare per un accostamento ottico piuttosto che metrico, di definire rapporti tra corpo, giustezza e interlinea, di decidere per una composizione a blocco o a bandiera, eccetera eccetera... Tutte caratteristiche estremamente tecniche e rilevanti. Non di rado però si agisce senza minima contezza di farlo, quasi sempre fraintendendo in gran parte ciò che si sta facendo attraverso fin troppo immediate cliccate. Ahinoi, quanti «giustificati» senza sillabazione e, anche peggio, quante «bandiere» sillabate! Si potrebbe dire lo stesso per la produzione dei siti web, così come per molte altre discipline tecniche eterogenee alla grafica, sia pratiche sia dell’ingegno. Oggi è questo, in radice, il vero comune «problema»: è accresciuta la disponibilità e la potenzialità degli strumenti, senza che a ciò si sia sempre accompagnata una corrispondente evoluzione nell’ecologia delle competenze e delle intenzioni, così come nella consistenza della visione d’insieme.


Tornando a quanto più da vicino ci riguarda, la forma alfabetica, ci si deve dunque rassegnare alla generalizzazione di usi appiattiti e arbitrari di oggetti e strumenti? All’erosione di efficienza e di significato? È viceversa possibile stilare dei riferimenti guida accettabili ed accettati, altrettanto comprensibili e applicabili? Come potabilizzare questa oggettiva complessità? Come favorire l’adeguamento culturale? In altre parole, è praticabile una mediazione tra i succitati opposti approcci, alchemici o di scanso, di idolatria o di ignoramento? È possibile istituire un «protocollo» applicabile con utilità nel contesto più diffuso? Giunti appunto alle conclusioni, l’onere dell’indagine è ormai da condividersi con il lettore.

Come già sottolineato, non si hanno qui prototipi risolutivi, formule pronte all’uso. Partecipi noi del tempo del mutamento, nemmeno si potrebbero avere. Molti oggetti cadono ancora esternamente al nostro campo «visivo» e, all’opposto, altri sono troppo vicini per essere a fuoco, cosicché spesso non si possono che avvertire intuizioni. D’altro canto, è indubbio che la posizione ravvicinata risulti contestualmente stato privilegiato, per l’osservazione di meccanismi e istanze nel loro affacciarsi concreto al corso degli eventi. Non sottraendoci dunque alla nostra quota d’obbligo, si sottopongono di seguito alcune considerazioni, da intendersi come riflessioni dinamiche, aperte, e non esaustive.

Principiamo, e non poteva essere altrimenti..., dai primi attori, vale a dire dalla scelta del tipo. Già qui, una selezione adeguata assicura implicitamente da molti potenziali incerti dell’opera.



2.8.1 il catalogo possibile !?
La ricerca della sensatezza di differenze e vastità.
La mole attuale dei caratteri è vastissima, come non lo è mai stata prima, nondimeno essa risulta accessibile praticamente a tutti, in tempo reale e quasi nella sua interezza. Sembrerebbero dunque porsi d’evidenza incrementate necessità di catalogo e di indicizzazione. Ciononostante, appare altrettanto concreta la maturazione del paradosso che non sia più possibile, e nemmeno sensato, ricercare una sintesi d’ordine univoca ed effettivamente significativa; questo almeno per la pratica comune. Non risulterebbe certo sufficiente una banale articolazione dei riferimenti di tradizione, né sarebbe altresì produttivo perseguire rigidamente la continuità con le classificazioni esistenti e i coordinati seriali di prammatica. Si pongono infatti necessità di rinnovamento ineludibili, non solo in merito alla compiutezza, ma anche ai requisiti e alla natura classificatoria: in altre parole, alla sostanza pratica e prospettica dell’analisi. Come detto, innanzitutto vi è il limite di rivolgersi ad un’utenza non più necessariamente tecnica, talora nemmeno minimamente iniziata. Non si potrebbe quindi far conto sull’assicurato supporto di un pregresso tacito di riferimenti. A ciò consegue l’incremento del carico descrittivo e di correlazione esplicita, qualsivoglia schema s’intendesse adottare. In sintesi, nulla si può dare per sottinteso. Oggi vi è poi l’ineluttabilità di poter/dover infine filtrare ogni ordine categoriale attraverso le interfacce e le tecnologie software: tanto potenti, quanto drastiche, mutevoli e autoriferite, e che quindi comportano intrinseco potenziale di forzature, fraintendimenti, banalizzazione, parzialità. In terzo luogo, vista l’intervenuta proliferazione di supporti, di modalità e di occasioni, il quadro delle variabili, che nel passato poteva intendersi ragionevolmente finito e precisabile, impone ora il confronto con una numerosità che più che infinita può dirsi indeterminabile: per quantità di oggetti, per dinamicità di stati e sviluppi, per matrice di combinazioni, per varietà dei piani mediali. A tutto questo risultano di sostanziale contribuito, in parti correlate, lo sbilancio domanda/offerta di tipizzazioni — con immotivato eccesso della seconda —, così come la maggiore accessibilità di strumenti e tecnologie di produzione, con conseguente eterogeneità qualitativa degli esiti. Nondimeno vi partecipa una selezione degli artefatti talora del tutto assente. Detto in breve: da un lato vi è una casistica cresciuta con progressione esponenziale, di costituzione disomogenea, che reca ambiti non marginali di precarietà ma al contempo è stabilmente parte del contesto; dall’altro, sia l’insieme che lo specifico delle differenze risulta ai più nebuloso, non sempre avvertito o legato alla reale sostanza.

Bodoni risolveva la gamma seriale con tre categorie principali: forma, grandezza, proporzione. Senza scendere agli esempi specifici, le prime disamine classificatorie potevano comodamente esaurirsi in una manciata di casi, ma già quelle di poco più mature giunsero a raddoppiare le tipologie fondamentali che, a loro volta, necessitarono ben presto di ulteriore integrazione. A guardare oggi i cataloghi di sintesi delle più autorevoli fonderie, si nota che, suapte natura, questa proliferazione è progredita non poco, per quanto d’evidenza si sia cercato funzionalmente di contenerla e di non stravolgere la tradizione. È noto che, ai fini classificatori, estendere il complesso categoriale oltre una certa soglia, «prontamente maneggiabile» e riconoscibile, produce inefficienza. Aderenza all’oggetto e potenzialità di sintesi, — entità e trasmissibilità dell’informazione, avrebbe osservato qualcuno1 — si trovano, per costituzione, in rapporto inversamente proporzionale. Vi si aggiunga che, allo stato attuale della materia, una maggiore puntualizzazione descrittiva dei dati oggettivi non risulta premessa certa di una consequenziale comprensibilità dei significati e delle attinenze. Diversamente che in passato, infatti, ci si deve oggi confrontare con percorsi e riferimenti non sempre progressivi e lineari. Per capirci: nelle epoche che ci hanno preceduto, il mutare di forme e funzioni dei segni era esito di processi relativamente lenti, continui, e di chiara causa. Ad esempio, era ed è pacifico che l’evoluzione geometrica da «Veneziani» a «Garamoni» e poi «Egiziani» sia frutto di un complesso stilistico, tecnico e di fruizione nitido e ben circostanziato. Oggi, viceversa, la casistica delle fattispecie è estremamente disunita, nelle forme e nelle ragioni. Non rari i casi del tutto estemporanei o riferiti riflessivamente, complice talora la copertura di mal comprese prerogative di design. Anche questo, nel complesso, può essere a sua volta associato ad una sorta di «stile» del nostro tempo; darne descrizione con metodi classici risulta però decisamente inefficace ai fini di una sintesi pratica orientata alla qualità. Sia altrettanto chiaro che dei grandinanti «colpi», i più disgraziatamente fuori bersaglio, per accidente o per merito qualcuno giunge a segno: ingiustificato quindi anche lo «sparare sul mucchio» elidendolo in toto.



2.8.2 il catalogo di riduzione?
Ripensare punto e condizioni d’osservazione.
Ritorniamo al quesito iniziale: poiché la vastità è oggettiva, bisogna dunque accettare di trovarsi di fronte ad individualità non più ordinabili? Innanzitutto potrebbe costituire salda base di partenza assumere con serenità l’idea, oggi non così scontata, che la coltivazione delle competenze non è banale oggetto di sfoggio, né esercizio autolesionistico, compulsivo, ludico. Tantomeno poetico o esoterico, ma onerosa irrinunciabile condizione per una azione al contempo consapevole, adeguata ed efficace. In tutti i campi, la conoscenza non può avere scorciatoia, tantomeno virtuale. Sia quindi altrettanto assodato che qui i «miracoli» del digitale non sono certo giunti a semplificazione, quanto invece a moltiplicatore di questioni e variabili. Anche la stessa accresciuta accessibilità della materia ha dimostrato avere significativi risvolti di complicazione. Così, alla lievitata complessità dell’«oggetto» segue, inevitabile, il maggior carico di articolazione e profondità dello schema che lo dovrebbe riassumere e rappresentare.

Ancorché ciò considerato, forse non può dirsi del tutto perduta la possibilità di dedurre una sintesi «compatta» del complesso tipografico. Una mediazione adeguata al contesto operativo più diffuso, vale a dire ad una ecologia di estrema superficie e velocità. Uno schema al contempo aderente e accessibile, pratico e significativo. Con il pacifico presupposto che qui non si tratterà di «classificazione», ma di «riduzione». Entrambe sintesi, ma di diversa sostanza e intenzione. Se la prima è un condensato che preserva l’intero complesso delle chiavi radicali, la seconda dovrà accettare la perdita di buona parte della rete delle correlazioni, a favore di una usabilità più condensata e «universale». Un parallelo a noi tecnicamente consueto potrebbe vedersi nel confronto tra gli algoritmi di compressione delle immagini lossless (es. LZW su TIFF), o viceversa con perdita di informazione (il classico JPEG): ognuno con indicazioni ed utilità proprie. Nel caso della seconda opzione — un sistema condensato, specificato e non reversibile —, è probabile che abbandonare il tradizionale approccio formale e stilistico, in favore di uno schema dichiaratamente funzionale, potrebbe essere risolutivo oltre che di maggior coerenza. Dando cioè, in modo esplicito e trasparente, l’«indicazione d’uso» e di contesto delle diverse tipizzazioni. In questo senso ordinandole. Nessuna invenzione o eresia! Approcci comparabili sono presenti, da tempo, in alcune sezioni dei repertori dei principali venditori di font, anche se lì in legittima declinazione commerciale. Si tratterebbe, così, di distillare un approccio con categorie unitarie e valutazioni strettamente tecniche. D’altra parte, l’indicazione funzionale è criterio già implicito nell’elaborazione delle tipizzazioni digitali dedicate, fornite cioè a corredo predefinito di ambienti operativi e applicazioni. Dapprima esse risposero alle esigenze derivanti dalla limitatezza di mappature (software) e risoluzioni (hardware); successivamente la specializzazione si è indirizzata alla moltiplicazione e all’assommamento seriale e di piattaforma, al fine dell’estensione d’uso. Si veda, appunto, la filosofia alla base del formato OpenType. Un’unica soluzione potenzialmente disponibile a coprire varietà estesissime; le stesse che un tempo erano viceversa ottenibili solo giustapponendo più singolarità seriali (sottogruppi e formati).

Ogni predigestione ha in sé, quale risvolto ineliminabile, la parzializzazione dell’intelligenza della fruizione. Vi si può d’altro canto compensare veicolandovi la garanzia di competenza del classificatore. Esso qui muta a fattore intrinseco, pienamente strutturale: nella composizione/indicazione delle «classi» e nella specificazione di requisiti ed usi. Una dura ma pragmatica condizione, del resto esattamente consonante alla parzialità e allo spirito degli strumenti elaborativi di diffusione massiva.

Altro discorso è che, a questo punto, onestà intellettuale indurrebbe a riflettere sul lungo termine: se da tale modalità d’efficenza, benché confinata d’ambito, possa derivare una ulteriore rarefazione della sostanza culturale degli oggetti mediali, oltreché di fruitori e attori; o viceversa ciò sia motivo di preservazione dei significati. Ma è appunto tema da discutersi in ambito diverso.



2.8.3 il catalogo di classificazione
Distinzioni, economie e innovazioni per l’osservazione ad orizzonte pieno.
Ribadito che la conoscenza non è sostituibile con succedaneo, se dunque può presentarsi la giustificata inderogabilità di una mirata azione di riduzione, nulla vieta, all’opposto, anche di mantenere ed evolvere una sistematica di maggior respiro. Vale a dire di sdoppiare l’analisi su due piani coesistenti, preservando anche una visione svincolata da filtri d’usabilità minuta, tantomeno commerciali o ad usum delphini. Alcune questioni restano comuni: si manterranno ovviamente prerogative di opportuna selezione di qualità e valore, leggasi di indirizzo. Ci si riserverà, tuttavia, la possibilità di osservare anche oggetti e sviluppi che, pure eterogenei o marginali a schemi di accettabilità attuale, possano in futuro evolvere dinamiche costruttive o sedimentare valenze di significato. La scienza non può prescindere dal giudizio, così come nel pregiudizio ha il suo opposto.

Anche un’analisi classificatoria di complessità piena, inoltre, non sarà esente da obblighi di sintesi e usabilità, benché in misura meno stringente rispetto ai sistemi di riduzione; ed ancora è probabile che anche qui, presto o tardi, si evidenzino limiti d’aderenza dei criteri tradizionali rispetto alla più recente casistica delle fattispecie: ciò non tanto nell’ordinare la forma, quanto nel discriminare le diverse nature sostanziali. In questo quadro, si ripropone inevitabile la questione circa l’«aggiornamento» o la riconfigurazione di tali criteri.


Per orientarci vale dunque la pena focalizzare sulle effettive evidenze di mutamento. Di certo, matrici d’ordine orientate su base geometrica, storica e stilistica costituiscono filo d’Arianna sempre valido e difficilmente prescindibile nel distinguere la produzione alfabetica. Vieppiù, in questi ambiti, non appare insistano trasformazioni tali da non potersi comprendere negli schemi consueti, per quanto eventualmente da integrare di alcune specificazioni. A guardar bene, infatti, anche l’inesausta proliferazione dei caratteri «espressivi», vale a dire quelli più liberi, di più fluida descrizione, in cui la rappresentazione del corrispondente alfabetico non costituisce ragione prima, si riuscirà a gestire ancora tutta in unico raggruppamento principale, di tradizione detto delle «Fantasie». Ma qui, la stilizzazione onomastica del gruppo è secondaria, così come l’unitarietà è da intendersi con prospettiva ampia, facendo base comune a queste tipizzazioni, appunto, la «non corrispondenza». In esse, infatti, l’elemento creativo si esprime variamente svincolato da dettami formali, così come di codifica. Lo specifico vale anche per quegli alfabeti le cui forme, esplicitamente corrotte e contraddittorie, esprimono posizioni di «rottura», «polemica», e «liberazione». Parallele considerazioni possono farsi anche in merito ad altri gruppi canonici, ancora attuali e vivissimi, per cui restano validi i riferimenti categoriali della tradizione.

Sia chiaro, l’evoluzione della tipizzazione non si è fermata, anzi! Dov’è allora il cambiamento? Un tempo poteva distinguersi una sorta di direttrice unitaria di sviluppo, che si esplicava su canali abituali. Oggi, viceversa, il fenomeno ha assunto nuova costituzione, e l’originalità è principalmente di substrato. Da un lato, le note convenienze d’efficenza proprie della codifica grafo alfabetica, dall’altro, il fatto che la composizione delle geometrie è già ampiamente esplorata fanno sì che l’innovazione, in senso proprio, si sia concretizzata maggiormente con attinenza tecnologica; quest’ultimo, peraltro, ambito tradizionale di sviluppo. La differenza è che si tratta di un complesso di tecnologie, di prestazioni e di requisiti radicalmente nuovi. In altre parole, pure essendo palese la presenza di fresche riletture «stilistiche» delle strutture tradizionali, il maggior rilievo delle mutazioni è da osservarsi sotto traccia, in particolare nella progettazione del segno in considerazione delle tecnologie legate al digitale: di visualizzazione, elaborazione, memorizzazione, distribuzione, ecc.

Ecco che potrebbe apparire il suggerimento per una nuova qualificazione d’ordine, una nuova categoria, a raggruppare le tipizzazioni che nel «non digitale» non avrebbero avuto senso d’esistenza. Vengono ad esempio in mente quelle prime tipizzazioni, alcune ancora in uso, elaborate per compensare in vario modo la tessitura discreta del digitale. Lacuna destinata ad essere poi presto superata. Ragioni consimili diedero corpo, ad esempio, ai caratteri che si proponevano il risparmio d’inchiostro nella stampa. Soluzioni invero risibili, per motivazioni ed esiti, cui oggi possiamo al più guardare con certa tenerezza: un approccio iniziale quasi di «difesa». Ben più sostanziali necessità, e più propositivi orientamenti, sono invece alla base dell’evoluzione della codifica informatica degli alfabeti, che dalla rigida rasterizzazione ha condotto alle successive rappresentazioni vettoriali. Estremamente leggere, elastiche ed efficienti, esse molto hanno partecipato e partecipano all’innovazione progettuale dei tipi e delle soluzioni d’uso. Di medesima sostanza e influenza, l’evoluzione degli standard e delle mappature che hanno dato un nuovo significato ai tradizionali concetti caposaldo, di «cassa» e «polizza». Per riassumere con descrizione condensata, la natura primaria di questa ipotetica classe «digitale» è la fluida declinabilità degli oggetti: nella struttura formale, nella composizione seriale e nella varietà delle ottimizzazioni applicative.


Accanto a quello tecnologico, altro evidente elemento di mutamento, osservabile nella sostanza dei repertori contemporanei, è la moltiplicata varietà di «intenzione». Vale a dire di ciò che può ritrovarsi a radice delle singole produzioni tipizzate, e che precede e condiziona ogni altra loro qualificazione. Anch’essa categoria che ben si potrebbe sintetizzare in una nuova classe ad hoc, per dare sintesi della carature di consistenza, contesto, obiettivi, tecnica, ecc... Un riferimento utile a fare chiarezza e selezione, almeno per sommi capi, nella vastità qualitativa del campo tipizzato e a dirimerne l’intrico. Certo si tratterebbe di misura non propriamente oggettiva, in questo senso interpretabile come fattore di riduzione, contraddittorio con lo spirito di una sistematica di estensione piena. Utile però sottolineare che, oltre ad essere fortemente sollecitata dalla casistica reale, una simile categoria potrebbe invece dar luogo ad una maggiore risoluzione rappresentativa, seppure vincolata alla corrispondente perizia e trasparenza dell’azione classificatoria. Un riferimento di maturità e chiarezza, da giustificare esplicitamente nei singoli casi. Circa le attribuzioni con cui misurare la categoria, si potrebbe ipotizzare la definizione di una coppia di parametri a pesare gli obiettivi — espliciti e/o desunti da osservazione competente — in regione del grado di coerenza infine concretizzato. Un arco di valori, per esempio, che possa coprire il campo dall’inconsistente, velleitario, frettoloso, plagio,2 ecc... fino al compiuto, soddisfacente, eccellente, innovativo, caposaldo!

Più in generale, lo scopo da porsi nella classificazione può non essere qui l’associazione sic et simpliciter di un «nome» ad una categoria.
Viceversa, trattando essa di segni, oggetti con valenza di comunicazione, obiettivo potrebbe volersi il  restituire il rilievo più approssimato possibile della combinazione di consistenze, cui corrisponde in modo specifico il senso contestualizzato di una data tipizzazione. Così che della infinita varietà di quanto può venire sotto i nostri torchi...3 si possa distinguere l’identità autentica, vale a dire davvero la sua «classe», ci permettiamo qui di seguitare. Come per le persone, aberrante qualsivoglia gerarchia d’umanità, sono altresì doverosamente e legittimamente riconoscibili gradi di dignità, moralità, merito, competenza, adeguatezza, affidabilità, ecc…, così per le tipizzazioni, sebbene tutte riferibili a medesimo codice — l’alfabeto —, è lecito nonché doveroso istituire distinzioni di consistenza. L’omologazione delle qualità è di per sé una disuguaglianza capitale, un motore deleterio, un atto di forzata violenza, indistintamente per tutte le singolarità.



2.8.4 alla ricerca del tipo
Pragmatica selettiva.
Le classificazioni dei tipi hanno dunque natura basilare di strumento di analisi e conoscenza. Al contempo, è possibile individuare per esse adeguate declinazioni d’utilità pratica, nei distinti contesti d’uso e competenza. Ma in questi secondi casi, quali potrebbero essere i termini di un obiettivo concreto? La selezione del tipo «perfetto»? E perfetto in cosa? Sembrerà detto fin troppo retorico, ma la compiuta perfezione in questo campo è decisamente improbabile, ancor prima essa non è di principale interesse. Più pertinente parlare di adeguatezza, cui si può ambire con varietà di grado, e che si realizza come combinazione di fattori non necessariamente perfetti o tutti oggettivamente collocabili e ugualmente corrispondenti nei diversi ambiti. Di norma si tratta di compromessi o, più correttamente, di equilibri; in ogni caso soluzioni sempre passibili di osservazione con disparità prospettica.

Pragmaticamente ciò si traduce nel discriminare la «qualità», in particolare nelle sue interrelate componenti di aspetto, significatività ed efficienza, a loro volta condensato di un articolato quadro di qualificazioni, anche non esclusive. Così l’aspetto può comporsi variamente di proporzione, armonia, misura, autenticità, novità, freschezza, vivacità, dinamismo, forza, stabilità, delicatezza... E di queste, alcune qualità sono parimenti riferibili all’efficienza, che in primo luogo coordina il mezzo fisico alla specificità di scopo. Ecco però che per i segni, la valenza prima ed ultima, di cui in radice tutte le altre sono partecipi e coinvolte, è proprio l’espressione del significato. Come descritto, vi si potrà tendere sulla base di una maggiore o minore competenza, e sfruttando il supporto di strumenti più o meno liberi o assistiti, come sono appunto le varie tipologie di classificazione. Questo, in definitiva, è (o dovrebbe essere) l’obiettivo di oggetti e di composizioni di natura grafo-alfabetica, nonché il principale elemento di ricerca e di valutazione: la comunicazione precisa e adeguata dei significati.

Per fare un esempio reale, in contesto pieno e competente (si spera!), prendiamo il caso del carattere utilizzato in questo spazio web. Si osserverà che, sebbene dotato di colte finezze, esso risulta orbo di utili declinazioni, motivo di taluni risvolti problematici cui tutt’ora qui non si è definitivamente deciso come far fronte. Ed anche tecnicamente, nel disegno, non tutto è compiuto e risolto. Ma allora perché si è scelto di utilizzare proprio questo tipo? Non sarebbe stato più opportuno optare per una font senza «lacune», una tipizzazione perfetta e compiutamente adeguata? Certo, attraverso la disamina classificatoria dei repertori seriali, si poteva approdare ad una soluzione più «facile»: la disponibilità di materiali è amplissima! Ma forse quella font non sarebbe stata allo stesso modo adeguata. In questa sede non è il caso di illustrare nel dettaglio l’oggetto della scelta,4 i pregi di forza, schiettezza e fisicità di questa tipizzazione «non perfetta», né i motivi di adeguatezza al sito. Per il nostro discorso è invece più importante focalizzare sul meccanismo decisionale. In altre parole, in che termini si è fatto uso dello strumento classificatorio. Sufficiente è sottolineare come in questo caso il processo di ricerca e analisi della tipizzazione sia stato innanzitutto orientato in relazione al contesto mediale, ai contenuti e ai referenti, determinando una prima selezione di maggiore pertinenza. Che in pratica vuol dire che, sulla base di ragioni di competenza, si sono subito posti fuori quadro alcuni macro gruppi formali e stilistici: ad esempio i bastoni o le fantasie, così come le grafie di varia specie e le tipizzazioni di marcata connotazione storica. Stessa sorte per i disegni di qualità minute, troppo delicati per una elastica resa sul supporto di destinazione, così per alcune famiglie usatissime o abusate che non avrebbero potuto garantire adeguato apporto identitario. Procedendo, si è progressivamente ristretto il fuoco attorno a precise caratterizzazioni formali e connotative. Alcune di esse richieste appunto dal complesso contestuale, altre legittimamente indirizzate dall’approccio personale: qui, ad esempio, la predilezione per la «e» di impronta umanistica, od ancora per talune spigolosità di tratto. Operata questa generale e radicale scrematura, cui proprio lo strumento classificatorio può dare grande ausilio, ci si è potuti concentrare in un ambito più ristretto, quindi più gestibile. Qui si è esteso il rilievo, la caratura e il confronto delle tipizzazioni nei loro minuti aspetti, misurandoli attraverso adeguati riferimenti di valutazione. Alcuni parte di categorie classificatorie principali o loro derivazioni, altri (ed è questa la libertà e la responsabilità di un approccio di maggiore estensione) dati inevitabilmente meno oggettivabili, che quindi permangono di indirizzo espressamente autoriale, vale a dire legati alla formazione e alla sensibilità individuale. Non per questo possono essere, o debbono intendersi, ambito d’arbitrarietà. Per dare un’idea sommaria, senza svicolare: composizione dell’abaco dei segni e delle varianti seriali, consistenza tecnica, efficienza e declinabilità di dispositivo e di dimensione, tipologia del formato digitale, licenze d’uso... sono riferimenti certamente oggettivi. Indice e soluzioni di eventuale integrabilità o associabilità, così come la valutazione di espressività e connotazione, delle qualità grafiche e stilistiche, del grado di autenticità o di innovazione, ecc., costituiscono viceversa altrettanti riferimenti affidati alla sintesi di competenza più personale. Nel caso di specie, ciò si è concretizzato nel dare prevalenza ad un coordinato di qualità espressive, rispetto ad alcune singolarità critiche sul piano del disegno e del repertorio seriale. Ma anche questo è atto tecnico.



2.8.5 orizzonti presenti e futuri
Appunti disordinati
A chiusura di questa serie di ipotesi ed esemplificazioni, appena abbozzata e al più destinata ad essere il pretesto per affrontare la questione con attenzione specifica, è forse utile ritornare sulle considerazioni accennate aprendo il capitolo (e prima ancora la sezione). Ora, infatti, si potrà avvertire con maggiore distinzione il senso della disamina organica e analitica sulla tipizzazione. Tutt’altro che esercizio pedante o strumento con utilità confinata a ristretto ambito di adepti, essa invece può essere mezzo attraverso il quale specifici gradi di competenza possono essere condensati, svelati e resi concretamente accessibili ad un insieme allargato di fruitori. Ad essi si possono altresì indirizzare opportune modalità di sintesi, secondo i diversi casi ed ambiti di utilizzo. Di questa attività, che invero si realizza nel coordinamento di più discipline e competenze, accanto alla valenza sistematica propria, quale metodo di analisi e conoscenza, non va dunque disconosciuta la connotazione di strumento di libertà ed apertura, tutt’opposto al luogo comune di applicazione elitaria e riflessiva.

La radicale mutazione digitale del campo grafico, specie nelle sue attinenze con la scrittura, ha dato origine ad una nuova variegata mole di oggetti e modi. Naturale evoluzione di ogni espansione è la selezione successiva. La conoscenza consente di non esserne solo spettatori, ma in varia misura attori partecipi, attraverso scelte operate nei diversi livelli di fruizione. Il passaggio dalla scrittura alla stampa diede luogo non solo ad una rielaborazione di canoni, ma anche a formulazioni mediali assolutamente inedite, dai risvolti culturali che in precedenza non avrebbero nemmeno potuto ipotizzarsi: si pensi, ad esempio, alla produzione di un «quotidiano». Così oggi il nostro sguardo può ragionevolmente estendersi molto oltre l’orizzonte consueto. Ancora una volta certamente non si tratterà di un percorso lineare, ma con picchi e ricadute, soluzioni e ripensamenti. E di nuovo non ne saranno coinvolti solo oggetti o modalità, ma la portata culturale e la natura stessa dello strumento alfabetico.


La rigorose regole e la strutturata sostanza della comunicazione con la lingua scritta, un tempo affidate alle singolarità manuali, poi sviluppate e rideterminate con il passaggio alle produzioni a stampa, sono oggi nuovamente alle soglie di una nuova rigenerazione. Gli schemi di tradizione, già non compiutamente congruenti con la base tecnologica attuale, ne seguiranno fisiologicamente il corso, ormai assai prossimo ad un punto di svolta sostanziale. Gli sviluppi delle tecnologie d’«intelligenza», le nuove modalità «artificiali» di analisi ed elaborazione dei contenuti testuali e figurali, nonché, «banalmente», lo sviluppo delle interfacce vocali stanno modificando alle fondamenta i termini della questione. La lingua pare indirizzata ad essere di nuovo correlata in parte significativa al «supporto» sonoro. Già oggi questo è realtà applicabile a molti usi funzionali e routinari, ma non serve troppa immaginazione per intravvederne in potenza un’estensione più vasta. A differenza dell’oralità pura primigenia, questa nuova condizione, che più propriamente si potrà definire «vocale», non è sottoposta ai limiti temporali dell’espressione detta e conclusa o, al più, del tessuto continuo della mera registrazione/ripetizione del suono. È infatti ancora una sorta di dimensione scrittoria, in quanto l’alfabeto, le parole, e più estesamente i contenuti, vi partecipano strutturalmente attraverso riferimenti di codifica, quali integrati corrispondenti segnici. Il nuovo approccio tecnologico, infatti, ha reso possibile la fusione, o meglio, la correlazione immediata di tutte le declinazioni fisiche della lingua. Ed ancora, grazie all’anatomia discreta del tessuto digitale, nulla si perde delle potenzialità della forma scrittoria, anzi esse vi risultano amplificate: così per la trasmissione e la memorizzazione, l’analisi e la sintesi, l’indicizzazione e interoperabilità, l’elaborazione e la traduzione… finanche la creazione «ex novo»» dei segni e del discorso. È ancora scrittura: non semplice dizione ma rappresentazione fisica della lingua. Quali ne saranno a lungo termine le evoluzioni formali e le influenze sui contenuti oggi sarebbe del tutto aleatorio provare ad ipotizzare.

 

 

 

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  1. U. Eco, cap. 1.4 «Informazione, comunicazione, significazione», in Trattato di semeiotica generale, pp. 77-85, Milano, La nave di Teseo, 2016 (1a ed. Bompiani, 1975), pp. 512. ^rif.
  2. Ad espiazione del peccato originale della tipografia, per cui, nella serialità della clonazione, spesso autentico e copia, invenzione e furberia costitutivamente si confondono. ^rif.
  3. G. Bodoni, «A chi legge», in Manuale Tipografico del Cavaliere Giambattista Bodoni, pag. XXXVII vol.1, Parma, 1818. ^rif.
  4. Riservando eventuale futuro intervento dedicato, non si focalizza qui sul carattere, poiché in sé marginale rispetto alle considerazioni che si stanno esemplificando. Doverosa però una citazione più completa. Si tratta del «Mate», disegnato da Eduardo Tunni, dimostrando non comuni doti di sensibilità e raffinata eleganza. Questa font, saggio della sua interessante produzione, è generosamente disponibile con licenza «SIL Open Font License v1.10», contribuendo alla costituzione di un web di qualità. ^rif.

 

 

 

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