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approfondimenti

Scritture

Chi non intende preoccupa meno di chi non si applica ad intendere


Altra prospettiva di un tema più volte presente nelle nelle pagine di questo sito, e del quale certamente capiterà ancora di approfondire sfaccettature: comunicare con le parole. Con speciale dedica a quanti sbuffano quando gliene toccano più di un paio in fila, annotando che godimento di diritti ed esercizio di consapevolezza spesso hanno relazione stretta.




 
come significato
Il «come» della scrittura è senza dubbio una delle questioni più controverse e ricorrenti che si pongano all’attenzione di chi si occupa della comunicazione con le parole. Questo stesso incipit si sarebbe potuto formulare in diversi altri modi: con gli stessi vocaboli o modulando con sinonimi più o meno specificati, utilizzando una costruzione logica affermativa o strutturando per negazione, enunciando in modo categorico o viceversa assertivo, mirando a sintesi o invece a completezza di dettaglio, dando corso a intento neutrale oppure calcando una sfaccettatura, ecc. Il come è esso stesso significato.


contenuti o destinatari

Tralasciando dei tecnicismi, che in fondo sono la componente banale del modo di comporre i mattoncini alfabetici, forse il quesito da porsi è innanzitutto d’obiettivo: cosa si ha da comunicare? E a chi? Possibilmente in questo esatto ordine. Non di rado, tuttavia, la sequenza si osserva ribaltata: quando la comunicazione è considerata con prospettiva prioritariamente di consumo, piuttosto che di tessuto culturale, è evidente che il contenuto sia ordinato in subordine: prima i destinatari. In virtù di questo si predispone l’oggetto da smerciare, magari in una forma che perpetui la catena. Ma «avere qualcosa da dire a qualcuno» è diverso da «avere qualcuno cui dire qualcosa». In questo capovolgimento gerarchico tra caposaldi principali della comunicazione anche quel «come», parte del significato, risulta influenzato: non si conducono i destinatari ai contenuti ma si avvicinano i contenuti ai destinatari.


semplicità o semplificazione
Che, detto così, potrebbe ritenersi atto sempre virtuoso; in realtà è frequentemente osservabile essere di segno opposto. Poiché, per deriva umana, quell’«avvicinare» troppo spesso non si traduce in utilità, semplicità, sintesi e chiara esplicazione, ma acquista caratteri strumentali, di parzialità e semplificazione: quest’ultima tutt’altro che benefica e innocua, ed invece colpevolmente degradante.

Plaudono gli ignari per la facilitazione, che pare risolvergli i problemi in contingenza, ma così ogni nuovo passo gli sarà più incerto del precedente, fino a perdere direzione, e poi il gusto stesso per la corsa in questa sorta di tapis roulant motorizzati della comunicazione. Di identica partita coloro che si professano seguaci dell’alchemico aforisma «nel meno c’è il più»: tanto leggiadramente decantato quanto male inteso. Manca infatti di specificare che quel «più» ci deve poi effettivamente essere! Per poter condividere o apprezzare la sintesi, che è essenza di moltitudine, bisogna prima avere in sé esercizio di quest’ultima, inevitabilmente interloquendo con la complessità. La riduzione non ne è certo la via.

Vige in sapienziali di grandissima voga, di cui si perdonerà qui il sorvolo, varia sorta di mantra che esplicitamente orientano alla riduzione, alla misura minima, prescrivendo che viceversa non si potrebbe trovare riscontro di comprensione, tantomeno di interesse. Certo, se l’obiettivo è la diffusione immediata e massiva di poca cosa, una caramella è più funzionale del tartufo, un tormentone balneare più di un’opera sinfonica: ma perché favorire a priori la rinuncia a sapori complessi o a sonorità di maggiore struttura? Perché non indurre al più invece che al meno? In questi «illuminati» precetti, ritualmente si afferma che non esista nulla che non possa essere spiegato in breve e con parole semplici. Viene però da chiedersi, appunto, quale potrà mai essere l’entità di queste taumaturgiche caratteristiche, quanto in quel modo potrà essere effettivamente «spiegato», e quanto «semplici» e non riduttivamente semplicistiche potranno rendersi quelle parole. Domande che si fanno oggi drammaticamente concrete considerati gli esiti della pratica diffusa, vale a dire la quantità attuale di approssimazioni, false certezze e inconfutati fraintendimenti che ammorbano il pensiero comune. Può ritenersi davvero democratico relegare preordinatamente lo status di quest’ultimo a margine imperfetto sacrificabile? A vizio collaterale non superabile? È davvero esercizio migliore non turbare la leggerezza di facili credenze con il carico di rappresentazioni di maggiore consistenza? È tutela di libertà lasciar progredire l’adorazione dell’immediato, univoco, predigerito di massa? Per giunta nelle attuali totalizzanti proporzioni?


fraintendimenti
E così, con buona pace di Eratostene, il pensiero regredisce di ben oltre due millenni e la Terra si fa piatta. Potresti dimostrare l’opposto con il Sole e un bastoncino di legno, o con la Luna e una pallina da tennis, e in altri modi accessibili, ma esiste un «pensiero» ancora più immediato, ancora meno gravoso, «vincente»: ...PIATTA! Punto. Scritto in MAIUSCOLO, che ovviamente gli stessi poco provvisti di cui sopra fraintendono più comprensibile del minuscolo.

Certo, in menti illuminate anche i temi più complessi possono infine palesare linee di sintesi lampante, ma è bene dirlo chiaro: la realtà non è affatto semplice! È invece meravigliosamente complessa. Ridurre alla superficie per sommi capi non equivale così a pensiero pratico, a comprensione, ma a tragica illusione, foriera solo di sicuri gravami.

Chiunque abbia redatto una tesi di laurea sa bene che l’introduzione si scrive alla fine, a condensare l’opera nel momento in cui più a fondo la si padroneggia. Con buona probabilità saranno tra le poche righe che, gioco forza, gli esaminatori avranno concretamente modo di leggere nell’esiguo tempo loro disponibile. E per quanto bene siano riuscite, più il lavoro sarà stato significativo meno quelle righe gli renderanno giustizia.


la giusta misura

Tornando all’affermazione d’avvio, essa si sarebbe potuta sintetizzare anche così: «scegliere come scrivere è questione complessa» o, più stringatamente, «scrivere è difficile»; ma quanto margine di imprecisione e ambiguità si sarebbe aggiunto? L’enunciato avrebbe ancora avuto un significato oggettivo, funzionale, esaustivo, centrato allo scopo? Qual è dunque la corretta misura?

Affermare che un bel sorso d’acqua sia rigenerante sembrerebbe avere carattere di incontrovertibilità, al limite del banale. Eppure potrebbe rendersi fondamentale avere aggiuntiva informazione se il bevente si trovi magari assetato nel deserto o viceversa annaspante tra flutti. Così, giusto per capire davvero come stiano le cose. ;) ...e, s’intende, sempre se i concetti di deserto e flutti siano condivisi.

Dal verso opposto anche l’immotivata lievitazione dei contenuti crea medesimo danno di chiarezza, di consistenza, di praticità. Lo hanno ben in mente certi redattori di resoconti bancari, contratti o polizze assicurative. Virare una cronaca in saggio ne snaturerebbe la funzione, tanto quanto fare di un sommario un indice. Oltre un certo numero di righe l’editoriale perde il lettore, così come l’aggiungere pagine «a spessore» e tomi su tomi a saghe infinite può appagare solo la compulsività maniaca di editori spregiudicati e seguaci insulsi. ...oltre, ovviamente, a far sussultare i sepolcri di copisti e prototipografi dediti, loro, ad ogni singolo carattere individualmente. Tuttavia anche queste sono cose che si vedono d’abitudine.


propensioni

Condizioni antitetiche, quelle tratteggiate, ma assimilabili per decadimento di sostanza. A favorirle paiono oggi catalizzatori determinanti la rapidità e la bulimia indotte dalle nuove interfacce della comunicazione, sia in produzione sia in fruizione; ...poiché il mezzo, eppure senza limiti, vuole così! Sarà vero?

L’invito invece è di sfruttarne tutte le attitudini andando oltre l’immediato predisposto — oggi si direbbero gli strumenti di default —, senza farsi ammaliare da derivanti malvezzi, affinché anche in modo diverso si preservi consistenza e qualità. Da un buon filato vengono capi confortevoli e perenni, viceversa mediocri usa e getta fonte di inquinamento.

È ormai palese il trovarci solo alle soglie della cosiddetta rivoluzione mediale, che forse si era data per compiuta, ma che di fatto per intima costituzione rigenera e amplifica se stessa incessantemente, in un processo lungi dall’esaurirsi. Intersezione dei mezzi e iper connettività conducono ad una inevitabile ed assolutamente opportuna evoluzione dei codici, da non interpretarsi tuttavia cedendo consapevolezza e consuetudine rispetto alla illimitata potenzialità della parola scritta, capace di essere vettore portante su più piani congiuntamente, e di veicolare concetti e descrizioni con risoluzione e univocità altrimenti difficilmente raggiungibili.

 
in parole ricche
Quella parola abbisogna però di essere scritta e, ugualmente, di essere letta. Non si potranno trovare soluzioni miracolose, non sono operabili trasfusioni induttive di sapere, immediate, gratuite, senza impegno da entrambi i capi del flusso. Qualunque sia il registro, la modalità, il grado di approfondimento utile al caso particolare, scrivere comporta dispendio di energia, lavoro, talora fatica, in misura direttamente proporzionale alla consistenza relativa dei contenuti. Chi afferma il contrario lo fa per abitudine alla banalità o per patologica incontinenza. Lo stesso comporta specularmente la lettura, e chi lo nega — perché costoro esistono — non legge ma scorre pagine, che è altra cosa. Ciò non significa che questo lavoro, talora fatica, non possa essere bello, e talora piacevole, e giusto, e opportuno. E indispensabile.

Chi ad esempio scrive per l’infanzia sa più di altri quanto studio e approfondimento possa esserci anche solo nella scelta di una singola parola o, ancora più in profondità, nella selezione di una data fisionomia alfabetica. Proprio perché lì necessita un codice particolarmente accessibile e sintetico, d’obbligo che la sostanza sia particolarmente ricca e pertinente. Quindi tutt’altro che abbozzata.

Ciò è vero in tutti gli ambiti e per ogni tipo di graduazione. Ridurre meramente il codice non lo rende certo più comprensibile, ma più ostico e meno prestante. Di sicuro meno soddisfacente da utilizzare. Salvo non soggiacere al progressivo impoverimento del messaggio, il lavoro di disambiguazione e reintegrazione che si rende necessario a valle di registri e contenuti riduttivi è di gran lunga più faticoso e meno efficace del maneggio di articolazioni linguistiche piene.

Ho il personale ricordo di un corso universitario la cui nozione risultava impenetrabile. Si scoprì poi che per «insondabili» motivi la dispensa ufficiale era il mutilante raffazzonato stralcio di una bibliografia ben più corposa. Scovati i testi, tutto apparve decisamente rischiarato, meno oneroso, più soddisfacente appunto! Farsi forti oscurando le fonti è forse tra i più intollerabili dei peccati capitali cui potrebbe cedere lo specialista che comunica di una data disciplina, tanto quanto caratterizzare come assoluto il pensiero proprio.


investire in competenza
È però dato di fatto che anche la più nebulosa delle condizioni, per quanto deludente, non basti a preservare dall’assuefazione a talune «convenienze», anzi! Serve impegno attivo, serve lungimiranza, serve volontà. Che non equivale affatto ad essere «secchioni» ma minimamente diligenti e intellettualmente onesti. Conforta d’altro canto che, per meccanismi consimili a quelli dirompenti dell’evoluzione mediale, ogni incremento di competenza nella pratica della parola scritta, che è pensiero, lo corrobori e fisiologicamente conduca al gradino successivo della scalata. Si tratta così di avventurarsi in un primo passo ben assicurato, il resto seguirà. Ogni nuova riga potrà infatti osservarsi con l’illuminazione della precedente e, con la pratica di buone fonti, l’acquisizione delle risorse si farà via via più efficace, molti contenuti si verificheranno e compenseranno vicendevolmente e nuovi spunti di interesse si potranno cogliere e valutare con progressiva cognizione di merito e chiarezza di differenze.


al concreto
Come dunque scrivere? Si è accennato di come nei modi di predisporre i contenuti il contesto abbia la sua parte e ogni fattispecie le sue opportunità canoniche, sia di linguaggio sia di approfondimento. Per un verso il lettore non solo può, ma deve, filtrare le fonti, allo stesso tempo, anche chi scrive è indispensabile abbia chiaro il suo interlocutore potenziale, e luoghi e canali della sua interazione.

Queste nostre pagine, ad esempio, si prefiggono una risoluzione e una consistenza ben precisa, di fatto operando una sorta di selezione del fruitore, con ciò prefigurando quello per il quale i diversi contenuti potrebbero avere significato ed utilità. Meglio ancora, in rapporto al quale la comunicazione stessa della data informazione acquisirebbe senso. Che ragione avrebbe, infatti, descrivere la natura della tipologia corsiva o l’uso corretto dei segni — dati basilari — ad addetti del mestiere? Più motivato invece rappresentarli all’utente generico, che sovente si osserva servirsene senza alcuna cognizione, indotto da mezzi fuorvianti e credenze errate. Da verso opposto, solo chi ne fosse addentro potrebbe trarre utilità da riflessioni strette di tipologia, catalogo, tipizzazione o semantica alfabetica. Talora si è quindi indirizzato ad ambito largo, altre volte estremamente confinato. Così come il sito, anche il lettore fa poi selezione da sé.

È questo luogo singolare e discosto, dove si giunge sapendo che c’è, e che ogni tanto vi si può forse trovare qualcosa di interessante, offerto senza il ricambio nemmeno di un cookie. Qui non avrebbero senso di collocazione trattazioni che si potessero reperire comunemente altrove, mentre avrebbe importante significato già che un solo lettore vi capitasse trovandovi magari un unico concetto d’ispirazione. A maggior ragione l’approccio non potrebbe essere generico o rituale, tantomeno approssimato: l’intento, infatti, non è di far salotto elitario ma di descrivere i temi con pienezza di contenuto e connotazione, relazioni laterali e implicite comprese, senza riserve, reticenze o convenienze. Ci si è proposti dunque di articolare misure di sintesi e dettaglio, di veicolare i significati reggendosi alle radici stesse delle parole, di sottolineare l’inquietante portata di alcune questioni del nostro tempo, di affrontarne altre meno decisive ma altrettanto eloquenti sul piano culturale, di partecipare l’importanza di nozioni che erroneamente si stimano specialistiche ma che in realtà costituiscono fondamenti dell’alfabetizzazione, di ritrasmettere preziose eredità affidate a salvaguardia di sapienze artistiche e industriali dell’era della stampa a caldo, di evocare, fosse mai possibile, la suggestione di certi incontri fatidici, ...lo scricchiolio del pavimento tra i profumati banchi di lettura della Marciana, andando a ritrovare Aldo, Pierre-Simon e Giambattista.

Di sicuro a questo scopo non potrebbero far gioco formulazioni superficiali, riduttive o ammiccanti.


densità
Ci sono testi d’approccio immediato, che innondano di certezze assolute e subitanee, le quali però, se va bene, alla prima prova sono destinate a rivelare le contraddizioni della propria inconsistenza. Ci sono casi opposti che, volgendosi in intrichi labirintici, sfocano il quadro risultando così fine a se stessi, alimentando il pregiudizio culturale. Come accennato, queste fattispecie possono anche essere costruite ad arte e il loro effettivo scopo si riduce alla conquista per immediatezza o, al contrario, per confondimento. I tratti distintivi sono molteplici, già l’articolazione strutturale e la connotazione grafica — l’esca — dicono moltissimo,  ma anche qui tecniche a parte, il più evidente è che alla fine non lasciano nulla. C’è invece altro tipo di contenuti, di maggiore onestà intellettuale, di cui si può fruire solo accettando, caso per caso, il carico specifico di una giusta densità, la quale però via via libera appigli affinché il lettore possa progredire con soddisfazione alla pienezza dei significati. Capita che taluni di essi possano all’inizio percepirsi ostici, quasi inaccessibili, e magari si perseveri con ben poco entusiasmo solo per dovere d’ufficio o per la fama che li precede. Capita anche che in casi molto speciali ci si ritrovi poi a leggerli e rileggerli, anche in stagioni diverse della propria formazione e della propria vita, traendovi ogni volta nuova illuminazione e interrogativi aggiuntivi. Dei veri e propri cannocchiali di idee... che sono però da guadagnarsi.


rare volte

Può trattarsi di saggi corposi o di interventi di poche righe, non da valutare a volume ma a densità, appunto. Eccezioni che d’evidenza si stagliano: per il sapere che condensano e il potenziale che liberano, per il portato di vite intere di esperienze, di riflessioni, di ricerche. Sono da leggere senza perdere nessuna sfumatura, nessuna parola, nessun dettaglio, che lì si trovano non certo per accidente. A riprova mi permetto una libertà che mi sono concesso di rado, so però che non gli sarebbe dispiaciuto: dalla mole di monografie, saggi, conferenze, articoli, lezioni... riporto poche righe, peraltro note e già autorevolmente citate da altri, redatte da Sergio Polano (quelli veramente grandi si citano così: nome e cognome). Si tratta di un contributo all’articolo1 “diciassette declinazioni del termine semplicità”, in Area. Rivista internazionale di architettura e cultura del progetto, n. 106, luglio 2014. Vedi anche qui->.

Irripetibile acutissimo illuminatore di menti, ho avuto l’immeritata fortuna che per certo tempo abbia voluto generosamente ispirare un po’ anche la mia. Scorrendole sento di nuovo il suo argomentare affilato e pieno, la assai rara potenza di stupire ogni volta, di ricombinare le carte, di decifrare ciò che altri nemmeno intuivano, di evocare immagini e prospettive, di generare pensiero. E rivedo fogli, riviste, volumi, edizioni solo per pochi preziose. Scaffali ricolmi sotto il soffitto basso, affollati sul piccolo tavolo dei discorsi — troppo pochi! — a Calle dei fabbri: vecchi libri, libri nuovissimi, poche cose, molte cose, reperti… Inossidabile il disegno per il compleanno… Leggo di pieghe e di nodi, e ripenso a segnature e filo refe,  telai strutturali di libri; leggo di ètimi, e ricordo vocabolari e «prime pietre»: si iniziava da lì, la lingua, base portante di ogni discorso. Architetti.

Ancora una volta mi è maestro per novità, sintesi, chiarezza. A lui dunque la chiusura, ma si sarebbe potuto, semplicemente… incominciare a leggere da qui.



Semplicità ( di Sergio Polano ) 1
Con l’aiuto dell’etimologia, attraverso un percorso stratificato dalla radice comune indoeuropea [*plek-], si scopre che ‘semplice’ è ciò che subisce e mantiene una singola primaria modifica tramite flessione, curvatura, torsione, piegatura.

Tuttavia, la parola ereditata dal latino letteralmente confonde le pluralità divergenti dell’etimo: la traccia di un plesso (plexus da plectere) non equivale a una banale piega (plicatus da plicare): il primo nodo tra dei fili non è lo stesso di una qualsiasi spiegazzatura di un foglio.

Iterando il nodo con regolarità e abilità, si giunge all’intreccio tessuto nel complesso (complexus), mentre aggiungendo spiegazzatura a spiegazzatura al più si ricava da un foglio un che di complicato (complicatus): nel primo caso, si incrementa la qualità, nel secondo la quantità.

Non a caso, ‘spiegare’ (explicare) non è privare delle pieghe ma svolgere e trarre il semplice dalle pieghe ossia conservare il dispiegarsi del complesso: questa semplicità ha in sé tutte le pieghe della complessità.

Privare delle pieghe, invece, è semplificare, appiattire le pieghe in un informe anteriore alla prima piega; aggiunger pieghe su pieghe, senza trarne intrecci, è complicare.

Semplicità e complessità perciò sono complementari, si includono reciprocamente, secondo un gradiente di regolare armonicità e intima necessità; altrimenti, la semplificazione è la faccia opposta della complicazione, ma ambedue son gratuite, la prima riduttiva, la seconda esornativa.